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A. Balslev, Cultural Otherness, Correspondence with Richard Rorty, Indian Institute of Advanced Study & Munshiram Manoharlal, Shimla-New Delhi, 1991.
Una scheda di lettura
di Paola Meozzi
Il volume, che verte sul tema dell'alterità sia come gender che come ethnicity, è frutto di uno scambio epistolare tra due filosofi di diversa impostazione:
Anindita Niyogi Balslev, poco conosciuta in Italia, nasce in India nel 1940, si laurea a Calcutta e prosegue gli studi universitari a Parigi, dove porta a termine il dottorato di ricerca con una tesi su uno studio comparato di alcuni temi filosofici relativi al Buddismo e all'esistenzialismo. Già da questo primo lavoro si manifestano i suoi interessi di studio che propendono verso una ricerca filosofica intrisa di religiosità orientale e che vanno sempre più orientandosi sulle tematiche del pluralismo religioso, della tolleranza, della possibilità di un'intercomunicazione religiosa e filosofica, dell'analisi comparata di alcuni concetti (come quello di tempo) nella tradizione indo-buddista da un lato e occidentale dall'altro. Membro di numerosi istituti e associazioni sia filosofici che religiosi in tutto il mondo, la Balslev ha insegnato negli Stati Uniti, in India ed in Europa, dove è attualmente docente di filosofia all'università di Aarhus in Danimarca. La sua spiccata tendenza al dialogo interculturale e le sue ripetute esperienze di lavoro negli Stati Uniti, la portano alla necessità di confrontarsi, in uno scambio che vada oltre le parole, con il mondo filosofico d'oltreoceano, di cui Rorty si pone come principale portavoce.
Richard Rorty, entrato vivamente nel dibattito filosofico post-moderno con Philosophy and the Mirror of Nature del 1979 (trad. it., La filosofia e lo specchio della natura, Bompiani, Milano 1986) e la raccolta di saggi Consequences of Pragmatism del 1982, è noto per le caratteristiche "anti-fondazionalistiche" del suo pensiero (la filosofia diviene post-filosofia rinunciando alle pretese di verità assoluta) e per aver introdotto o riabilitato concetti provenienti da un lato dall'ermeneutica (come quello contenuto nella sua caratteristica espressione "conversazione dell'umanità") e dall'altro dal recupero del pragmatismo (Peirce, Dewey, James). Nel 1989, con Contingency, Irony and Solidarity (trad. it., La filosofia dopo la filosofia, Laterza, Roma-Bari 1989), la "via post-filosofica" viene assimilata in parte alla letteratura e il filosofo diviene per Rorty un intellettuale liberale, intento a dialogare con il mondo in un atteggiamento ironico e al contempo "solidaristico".
E' da questo concetto di "conversazione" e dal senso dato al "liberalismo solidaristico" che occorre partire per comprendere l'intento di un libro, come quello qui recensito che, seppur modesto, vuole porre come punti di riflessione una serie di tematiche e di interrogativi lasciati in sospeso. Se, infatti, la "conversazione" e il "solidarismo" portano Rorty, da una parte, a non sottrarsi a un confronto diretto con "il diverso" culturale per riconoscere analogie e differenze alla luce della tolleranza, dall'altra tendono però a evidenziare i loro limiti filosofici, sicché la Balslev lo accusa indirettamente di ipocrisia intellettuale: "Se si segue l'idea Deweyana e si pensa alla 'razionalità non come a dei criteri applicativi (del tipo di quelli usati in tribunale), ma come al raggiungimento del consenso (come avviene in un comizio cittadino)', in che modo può un intellettuale politicamente consapevole fare qualche proposta quando 'l'altro' non è stato presente al comizio? Si può sostenere che, nel tuo schema, il 'noi' non ha alcun senso. Secondo te, che sei un pragmatista che 'ha abbandonato l'idea kantiana di emancipazione', non esiste alcun 'noi permanente', inteso come un concetto metafisico trans-storico che ha lo scopo di narrare storie di progresso. L'unico noi di cui abbiamo bisogno è un noi situato e transitorio: noi significa più o meno 'noi, intellettuali socialdemocratici occidentali del ventesimo secolo'[...] Ciò che tu descrivi come la tua posizione, 'una forma di etnocentrismo moderato', è stato considerato da altri come 'narcisismo secondario', 'fascismo' e persino 'imperialismo culturale'. "(p. 44)
Quello che la Balslev intende chiarire è sino a che punto la "conversazione" di Rorty si estenda ad includere culture eterogenee e se possa essere definita realmente come tale, dal momento che spesso viene ridotta a niente più che un discorso sull'altro o all'altro, ma mai con l'altro. D'altra parte Rorty si difende da eventuali attacchi destabilizzanti, ribadendo l'impossibilità del filosofo moderno di varcare i limiti del proprio sistema. Egli infatti afferma che, sebbene l'etnocentrismo sia un "mezzo di cui ci dobbiamo infine liberare", è pur sempre meglio di un immaginario modello comparativo interculturale di sapore essenzialistico ("Ma, a meno che non si accetti di essere un esperto essenzialista platonico, non esiste altro mezzo da usare", p. 58). Sul versante opposto, l'argomentazione della Balslev, tutta intessuta di fervore idealistico-religioso, non può fare a meno di aprirsi alla speranza di intravedere, di là dai dissensi dettati da visioni del mondo divergenti, un "pensiero globale" capace di oltrepassare il particolarismo e l'etnocentrismo moderni. E' come se, auspica la filosofa indiana, sovrastante l'immagine del pluralismo e dell'incommensurabilità concettuale, fosse possibile rintracciare un "nuovo modello culturale" che, mediando i dissensi ed amalgamando le affinità, si ponesse di là dai vari punti di vista. Sarà quindi possibile comunicare interculturalmente solo se saremo in grado di trascendere i limiti dei nostri mondi concettuali.
In cosa ciò consista non risulta chiaro. La Balslev si limita solo alla richiesta di un autentico interesse verso l'altro nel momento del dialogo, interesse che deve essere lontano dalla pura curiosità "romantica" per il diverso. Vero e proprio caleidoscopio di significati e di ottiche interpretative, la "diversità" appare sempre collegata alla problematica della differenza sessuale. Se, afferma la Balslev, la questione è stata sempre trattata da sociologi, intellettuali e politici secondo i clichés della propaganda femminista, occorre riformulare in maniera diversa quanto in passato si era ridotto a niente più che "una battaglia tra i sessi".
A questo punto la voce di Rorty si fa più aspra e polemica poiché, dove la filosofa indiana tenta il recupero di argomentazioni di matrice religiosa, l'altro individua invece la solita "retorica dei diritti umani". Egli spiega che lo scopo degli "intellettuali femministi" deve essere riportato sul piano dell'analisi storico-politica della discriminazione femminile. Se, infatti, non è possibile ricercare una spiegazione naturalistica per giustificare la differenza tra i sessi, l'unico modo valido è quello che attiene ad un modello sociologico specifico che sia in grado di valutare le condizioni sociali della donna come dovute a motivi politici e storici contingenti e non alla "natura delle cose". Un altro aspetto della otherness (alterità) può essere colto nella tematica razziale. Il problema della razza introduce la questione dell'occidentalizzazione del Terzo Mondo che, secondo la Balslev, ha imposto l'importazione forzata del modello culturale occidentale, finendo per rappresentare una minaccia di appiattimento dell'eterogeneità delle tradizioni. Di notevole importanza è quindi la possibilità di elaborare un modello di razionalità comune che sia al contempo "costruttivo" di un autentico dialogo interculturale e "decostruttivo" nella fase di approccio critico all'esistente, compito che risulta essere assai più ambizioso rispetto al più modesto ideale pragmatico professato da Rorty, per il quale "il pragmatista fa cadere la retorica rivoluzionaria dell'emancipazione e dello smascheramento a favore di una retorica riformistica di maggiore tolleranza e minore sofferenza" (p. 54-55).
Certamente non è molto, e Rorty ne è consapevole, ma occorre riconoscere il ruolo limitato della filosofia a favore di uno spazio d'azione politica che tenga conto delle esigenze di un dialogo interculturale e della possibilità di realizzare un sistema linguistico comparativo, come suggerito dalla Balslev. E' necessario quindi prendere coscienza del fatto che il filosofo non può sottrarsi alla necessità di farsi portavoce di una visione che sia comunque particolaristica o "parochial". Rorty ribadisce la responsabilità della filosofia pragmatista in quella che potrebbe essere definita come "un'operazione di pulizia" dei detriti rimasti del vecchio innatismo e dell'universalismo. Il suo "imperialismo culturale" consiste proprio nel non aver alcun bisogno di ricercare una giustificazione per poter affermare che il vocabolario degli "intellettuali socialdemocratici occidentali del ventesimo secolo" è il migliore che si sia sinora potuto incontrare in quanto garante di tolleranza e solidarietà nei confronti dell' "alterità culturale".
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