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Irigaray, Speculum. L'altra donna
Luce Irigaray, Speculum. L'altra donna
(Speculum. De l'autre femme,
Les Editions de Minuit, Paris 1974)
Terza parte: l'hustéra di Platone
Una scheda di lettura
mito Socrate rappresenta gli uomini, oi anthròpoi, senza specificarne il sesso. L'entrata della caverna inoltre è rappresentata come un lungo passaggio che porta verso l'alto, verso la luce. C'è qui, scrive la Irigaray, un intervento decisivo della simmetria che disorienta.
Gli abitanti della caverna vivono lì fin dall'infanzia. Sono incatenati e non possono voltare la testa ma è comunque concessa loro una luce. Si tratta di un fuoco che è "ad immagine" di un sole.
Nella caverna c'è la strada tra il fuoco e i prigionieri; lì, anche, delle catene impediscono ai prigionieri di voltarsi e tornare verso l'entrata, verso l'origine. Dietro di loro ci sono altri uomini.
Eppure la caverna è già di per sé uno speculum, un antro di riflessione: tutto è organizzato e disposto in cavità, sfere, orbite.
"Somigliano a noi" dice Socrate.
C'era da aspettarselo, risponde la filosofa; quest'affermazione non fa altro che confermare il processo del medesimo che la filosofia compie: i prigionieri non hanno mai visto altro che riflessi di oggetti rappresentati dietro di loro e sono stati costretti per tutta la vita a tenere la testa immobile.
Se essi potessero parlare tra loro, chiamerebbero le loro visioni oggetti reali, aggiunge Socrate, stabilendo in questo modo una concezione del linguaggio che detta, in anticipo, lo svolgimento del colloquio e degli interventi. La verità, alètheia, interviene nella forma della denominazione, e ne determina silenziosamente il funzionamento.
Anche la liberazione dalle catene, che avviene per uno alla volta soltanto, è rappresentata "come se" il recinto della caverna fosse la matrice, da cui il prigioniero viene cacciato a forza.
"E giunto alla luce, essendo i suoi occhi abbagliati, non potrebbe vedere nemmeno una delle cose che ora sono dette vere."
Occorre cioè che l'uomo regoli, adatti la sua ottica alle nuove condizioni. Tutto è all'inverso, almeno nell'ordine delle apparenze, dell'apparire: il rovesciamento della scena non è semplice e l'uomo non vedrà fuori al sole, una volta uscito dalla dimora sotterranea, quello che avveniva dentro l'antro.
Il prigioniero viene dunque sradicato da una concezione e da una nascita che sono troppo "naturali", per essere rinviato a un'origine più nobile.
Così, una volta uscito, l'uomo si volge verso "i corpi celesti e il cielo stesso": il mito, afferma la Irigaray, è al servizio della dimostrazione. Il filosofo in questo modo non è avviato ed invitato ad altro che alla cancellazione dell'inizio, e l'imperativo è di non tornare mai indietro.
Nell'interpretazione del mito, ampiamente rivisitata dalla filosofa francese, partecipare degli attributi paterni segna un termine nella progressione: la filosofia, per salvaguardare l'integrità dell'immagine del padre, toglie a quanto nell'universo gli somiglia di più (la donna) l'uso di tutti i sensi.
L'amato è tale soltanto per ciò che riflette della luce divina, che l'uomo rispecchia più fedelmente della donna o di qualsiasi altro animale, e si amano soltanto coloro che sono impazienti di ritrovare sempre il medesimo.
Nell'educazione filosofica, la madre non avrebbe occhi, né coscienza o memoria, perché il passaggio dalla caverna alla realtà cancella la realtà della caverna.
Però, conclude la Irigaray, 'immaginate che qualcuno, questa volta però non a scopo pedagogico, qualcuno mosso da altre intenzioni politiche o da un desiderio perverso di divertirsi, sollevi i "prigionieri" incatenati proprio quando il filosofo, sempre un po' perso nelle sue idealità, è andato a sedersi tra di loro, sul suo sedile di una volta.
Non pensate che "l'ucciderebbero, se potessero averlo tra le mani e ammazzarlo?"
Lo ucciderebbero "certamente, rispose".'
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