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J.C. Tronto, Moral Boundaries,
London- New York, Routledge, 1995
Una scheda di lettura
di Maria Chiara Pievatolo
Joan Tronto si propone di liberare l'etica della cura dal suo tradizionale nesso con la moralità femminile. Questo nesso è doppiamente controproducente, sia perché induce a trattare natalità, mortalità e cura come questioni "da donne" e dunque periferiche, sia perché può essere usato per incatenare le donne alla funzione materna.
L'etica della cura, come morale delle donne, si potrà affermare solo se il suo valore verrà riconosciuto al di là degli ambiti marginali che attualmente sono riservati sia alla cura, sia alle donne. Per questo è strategicamente essenziale mettere in discussione le tre frontiere morali (moral boundaries) che la separano dalla prospettiva mainstream:
1. la frontiera fra la politica (allocazione delle risorse e ordine pubblico) e la morale (considerazioni su che cosa è importante fare e in che modo, e su come avere relazioni con gli altri). Questi due ambiti, in realtà, sono strettamente intrecciati: Aristotele descrive l'associazione politica come la maniera in cui la società ci rende capaci di morale.. Ma la maggior parte dei pensatori contemporanei ha una impostazione basata o sul primato della morale (individuale e fissa) cui si deve adeguare il potere politico, o sul primato della politica (come arte di conservare il potere). Ne risultano così due ambiti impermeabili, ciascuno dei quali ignora le questioni dell'altro: per superare questa scissione, occorre trovare una versione politica e morale della vita buona.
2. la frontiera fra un punto di vista morale inteso come distaccato, imparziale, spassionato, universale, per il quale non conta in che modo si sia indotti a comportarsi moralmente, e un punto di vista concreto e contestuale.
3. la frontiera fra vita pubblica e vita privata (pp.1-21)
Nell'etica universalistica che viene contrapposta all'etica della cura non c'é nessuna proprietà intrinseca che conduca all'esclusione delle donne: l'esclusione delle donne è contingente e deve essere spiegata non con gli strumenti della filosofia, bensì con quelli della storiografia.
Una morale minima, universalistico-formale, non pretende che tutti condividano gli stessi scopi e contesti: per questo, in un mondo ampio, differenziato e orientato al mercato, permette di evitare il conflitto sociale. Di contro, una morale "massimalista" come quella di Aristotele, può funzionare, formando disposizioni virtuose, solo se il medium e il contesto sono condivisi.
Nel XVIII secolo ebbe inizio un processo di razionalizzazione e mondializzazione che rese inattuale l'etica aristotelica: con la nascita della fabbrica, la sfera del lavoro si separò da quella della famiglia; declinò il repubblicanesimo civico e con esso il primato della vita "politica" su quella "sociale", i cui protagonisti non si pensavano più come cittadini, bensì come borghesi, tecnocrati e homines oeconomici. Su questo sfondo, Kant sconfisse la scuola scozzese dei sentimenti morali: le virtù della cura vennero relegate nella sfera domestica e affidate alle donne. L'etica kantiana, a differenza di quella scozzese, sa fare i conti con l'alterità, proprio perché non riposa sulla assunzione di un "sentimento comune". Ma occorre chiedersi se l'universalismo, più che presentare argomenti morali universali, non si limiti a fare dell'universalità una realtà - in quanto esso stesso trae storicamente origine da un processo di mondializzazione. (pp. 25-59)
La teoria dello sviluppo morale proposta da Kohlberg, pur dichiarandosi universalistica, produce un élite di esperti morali - coloro che sanno assumere il punto di vista dell'altro generalizzato perché hanno avuto la possibilità di prendere decisioni generali - rispetto alla quale gli altri sono o assimilati o esclusi. Ma Carol Gilligan, che adotta la strategia della different voice tipica delle donne, è intrinsecamente conservatrice, in quanto mantiene i ruoli di genere e le frontiere morali fra giustizia e cura - senza rendersi conto che la differenza fra giustizia e cura non descrive solo il divario fra uomini e donne, ma in generale quello fra privilegiati e marginali. Il pluralismo morale che ella abbraccia si limita a sostenere il separatismo in luogo dell'assimilazionismo e perciò rimane dalla parte dei privilegiati - proprio perché non mette in discussione né le gerarchie sociali, né i confini fra le due impostazioni. (pp. 61-97)
Mettere in discussione i confini fra giustizia e cura significa riconoscere che, se la filosofia morale riguarda il bene della vita umana, allora la cura deve avere un ruolo importante. Per questo, essa deve essere liberata dall'associazione con la femminilità e la naturalità (materna) e messa in un altro contesto. Un contesto reso attuale dal fatto che le attività domestiche si sono spostate sul mercato e nel welfare state e che la divisione del lavoro basata sul genere si sta erodendo, anche perché l'istruzione pubblica ha costruito una società mista ed eterogenea. Dobbiamo dunque riconoscere che gli esseri umani non sono soltanto esseri autonomi e uguali, ma anche creature bisognose che richiedono cura. E dobbiamo essere consapevoli che la cura, in quanto practice (struttura comportamentale fondata sull'abitudine) non può essere ridotta a regole, ed è dunque costantemente esposta al rischio di essere paternalistica e provinciale (pp.125-153)
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