Copyright © 2004 Maria Chiara Pievatolo
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23-11-2004 03:02:19
Sommario
Per quanto pochi umanisti se ne rendano conto, la questione della libertà del software è solo in minima parte un problema tecnico. Dai computer e dalla rete dipende un porzione crescente della nostra capacità di conservare e comunicare il sapere. Il codice che gira sui computer influenzerà sempre di più il carattere del sapere e della sua comunicazione. Quando ci chiediamo se il codice debba essere riservato a pochi, oppure pubblico e aperto a tutti, ci stiamo anche domandando se il sapere debba essere per pochi o per tutti. Ci stiamo chiedendo se il diritto di vivere e scegliere in maniera consapevole sia solo per pochi, o per tutti.
Questa domanda è talmente importante che non merita di rimanere confinata tra i cultori del software libero. Prima della grande divisione che ha separato gli umanisti dagli scienziati, i problemi legati alle tecnologie della parola erano considerati di interesse generalmente umano. Tutti noi, infatti, parliamo e ragioniamo. E la maniera in cui usiamo la nostra ragione è fortemente influenzata dall'organizzazione e dalla distribuzione dell'informazione concessaci dalle tecnologie della parola di cui disponiamo. E' possibile raccontare la storia dei significati della libertà in parallelo con la storia delle tecnologie della parola.
Nella storia dell'umanità ci sono state tre grandi rivoluzione mediatiche: la prima, la più importante, è stata il passaggio da una cultura prevalentemente orale ad una cultura basata sulla scrittura, a partire dall'ultimo terzo del V secolo a. C., in Grecia. La seconda si colloca alle soglie dell'età moderna, a partire dall'invenzione della stampa a caratteri mobili. La terza è quella che stiamo vivendo oggi. Le altre due rivoluzioni hanno un passato, che può insegnarci qualcosa; l'ultima rivoluzione ha un futuro che dipende da noi.
La democrazia viene inventata ad Atene, nel V secolo avanti Cristo. Il regime democratico ateniese era diretto: si basava su assemblee pubbliche e sul frazionamento e la partecipazione del potere. Il pensatore politico francese Benjamin Constant, in un famosa conferenza parigina del 1819, descrisse la libertà degli antichi come autonomia politica collettiva. 1 E' libero chi partecipa alla gestione politica di una città che si governa da sé. Le libertà individuali hanno valore solo se sono al servizio dell'unica libertà che conta, quella della città. Il cittadino antico accettava leggi come quelle suntuarie, che vietavano l'ostentazione del lusso, o processi per reati che noi oggi chiameremmo d'opinione, da parte di una autorità che era nello stesso tempo civile e religiosa. Anche la libertà dell'informazione era strumentale alla libertà della città: la libertà di parola (parresia) era un valore collettivo, ma non un diritto individuale. Si apprezza chi parla con franchezza, per il bene della città; se però la città giudica pericoloso quello che qualcuno dice, non c'è nessun diritto individuale a proteggerlo. Tuttavia, il cittadino antico godeva, in compenso, di una libertà che oggi facciamo fatica perfino a immaginare: la libertà di determinare direttamente le scelte politiche della sua città, di decidere in prima persona, ancorché assieme con altri, della pace e della guerra.
Per quanto la democrazia facesse uso di leggi scritte, essa si collocava nell'ambito di una cultura ancora prevalentemente orale. Una cultura orale, per mantenere in vita il suo patrimonio di informazione, ha bisogno della memoria – la memoria come capacità fisica di ricordare quanto si è ascoltato. Il ricordo, quando non si dispone di un testo scritto, si conserva con una continua ripetizione: il sapere della cultura orale era, come la libertà degli antichi, collettivo e sovraindividuale. 2 L'informazione poteva perdurare solo se il singolo non la teneva per sé, ma permetteva a chiunque di ricordarla e di ripeterla. Se l'informazione fosse stata di proprietà privata, a fosse stato necessario ottenere autorizzazioni per apprenderla e riferirla, assieme con la memoria collettiva sarebbe scomparsa la cultura stessa.
Il filosofo Platone si trovò ad assistere alla transizione da una cultura prevalentemente orale a una scritta. Per lui, e per il suo maestro Socrate, sapere significava non tanto avere una nozione, come si possiede un libro che sta sullo scaffale della propria biblioteca, quanto riuscire a condividerla e a discuterla con gli altri. Il testo scritto, in questa prospettiva, appariva pericoloso, perché dava l'illusione che il sapere fosse un oggetto che si possiede, invece che un processo che esiste solo nel ragionamento, nella discussione e nella condivisione. Alla fine Platone scelse di scrivere, per poter parlare a un pubblico più ampio, pur indicando i limiti della scrittura. 3 Nel mondo antico, nonostante la scrittura, le idee non si trasformarono in oggetti. I libri, che dovevano essere copiati a mano, erano rari e costosi; il copyright continuò a non esistere. Quanto ci resta della scienza e della letteratura antica ci è arrivato grazie al lavoro di generazioni e generazioni di copisti. Data la difficoltà tecnica di riprodurre i libri, se non ci fosse stata la libertà di copiare una parte fondamentale della nostra cultura sarebbe andata perduta per sempre.
Alle soglie dell'età moderna il tipografo tedesco Gutenberg inventò la stampa a caratteri mobili. Il libro cominciò a trasformarsi, da rara e costosa opera d'arte, in un prodotto industriale. La stampa ha reso tecnicamente possibile Il successo della riforma luterana, che sosteneva il principio del sacerdozio universale del cristiano e l'accesso di tutti alle Scritture. La libertà di stampa è una libertà d'impresa, privata ed economica: ma la sua capacità di propagare i testi fa sì che essa si confonda con la libertà di espressione, anche se la libertà di parlare e quella di fare soldi vendendo parole altrui sono, di per sé, concettualmente distinte e non necessariamente congruenti.
La nuova libertà dei moderni è privata e individuale. Il suo prezzo è una partecipazione politica infinitamente minore rispetto a quella del cittadino antico. Secondo Constant, la democrazia degli antichi non è più possibile perché gli stati sono divenuti troppo estesi per essere governati direttamente; inoltre, il commercio impegna a tempo pieno e ispira una passione per il lusso e le comodità che difficilmente scambieremmo con la militanza del cittadino antico.
Un greco antico avrebbe trattato la libertà dei moderni come una libertà degli idiotai, cioè dei privati o dei deficienti: chi pensa solo agli affari suoi e non si rende conto della base politica e collettiva della libertà, è destinato a perdere anche la sua libertà privata. Gli uomini moderni, tuttavia, erano convinti che il luogo primario della libertà fosse quello economico. E la potenza industriale della stampa per la propagazione delle idee sembrava dar loro ragione.
Dal carattere industriale della stampa deriva un'altra invenzione moderna: il copyright. La proprietà intellettuale, in quanto proprietà di un oggetto immateriale, è un concetto problematico. Il diritto romano, nell'antichità, escludeva la possibilità della proprietà degli enti immateriali, per motivi simili a quelli addotti, oggi, da Richard Stallman. 4 Il problema del mio e del tuo si pone per gli oggetti fisici, che non possono essere fruiti da tutti nello stesso tempo. Non si pone per le per idee, che possono essere pensate da tutti senza che nessuno sia impoverito. Il filosofo illuminista Kant aggiungeva che se il libro o l'opera d'arte è inteso come mero oggetto fisico, chi lo acquista legittimamente, 5 per la stessa logica della proprietà privata, ha tutto il diritto di copiarlo, regalarlo, o anche di rivenderne le riproduzioni. Nel '600, prima dell'invenzione del copyright, veniva regolato il diritto di stampare, che era un privilegio concesso dalla corona a singoli e corporazioni, allo scopo di sottoporre a controllo censorio ciò che veniva pubblicato. Gli stampatori cui questo privilegio era stato riconosciuto divennero così, non sorprendentemente, i più accesi sostenitori della censura. Il copyright nacque come rimedio per sottrarre la stampa al monopolio perpetua garantito dalla prerogativa regia: nacque, dunque, come uno strumento per garantire una libertà economica dall'interferenza dello stato. La più antica legge europea sul copyright, lo Statute of Anne del 1710, prevedeva un diritto esclusivo di riproduzione a stampa di soli 14 anni dalla prima pubblicazione. 6
Con il copyright, il diritto di controllare l'espressione delle idee passò dal potere politico pubblico al potere economico privato. Gli illuministi tedeschi si resero conto del peso di questa scelta, e ne discussero a lungo, in un dibattito ormai dimenticato. Kant, in un testo del 1784, Sull'illegittimità della ristampa dei libri, 7 sostenne, sulla base della tradizione del diritto romano, che non si può dare proprietà di oggetti immateriali. Il copyright deriva semplicemente dal rapporto personale che l'autore deve instaurare con l'editore per raggiungere il pubblico. L'editore parla a nome dell'autore; e per farlo ha bisogno della sua autorizzazione. Questa autorizzazione deve essere esclusiva soltanto perché altrimenti l'editore non avrebbe interesse economico a stampare il libro. Quindi, sebbene la libertà di pensare e di scrivere e la libertà di stampare e di guadagnarci sopra siano due cose distinte, chi vuole che le sue idee circolino può raggiungere un onorevole compromesso con gli interessi economici degli editori, se la stampa è l'unico mezzo per raggiungere il pubblico. Gli illuministi pensavano che la pubblicità del sapere avesse un significato politico essenziale: solo un potere politico pubblico ed esposto alla pubblica discussione può permettersi di essere giusto. Sulla macchina del potere devono girare programmi open source. La libertà economica e privata dei moderni, con le possibilità offerte dalla stampa, sembrava offrire qualcosa di più della libertà degli antichi, permettendo la creazione di una “società civile” e una cultura al di fuori dal controllo dello stato.
Oggi il copyright si estende fino a 70 anni dalla morte dell'autore, e non riguarda più soltanto la riproduzione a stampa, come era ai tempi di Kant, ma ogni forma di riproduzione e di rielaborazione. Contemporaneamente, Internet sta producendo una terza rivoluzione mediatica: in rete tutti possono comunicare con tutti e chi vuole diffondere le sue idee o i suoi programmi può farlo direttamente, senza la mediazione della struttura industriale centralizzata tipica dei mezzi di comunicazione tradizionali. Dal punto di vista dell'autore, un copyright divenuto così lungo da superare di molto i limiti della sua esistenza fisica ha ben poco senso. La copia è oggi indispensabile perfino per leggere un documento digitalizzato sul proprio computer: dal punto di vista del lettore, un copyright così ampio è un ostacolo alla circolazione e alla conservazione dei testi.
I detentori del copyright vorrebbero che la copia personale e la condivisione senza fini di lucro fossero sanzionate come forme di pirateria. Il copyright originario, di contro, proibiva soltanto la ristampa non autorizzata, a fini di lucro. In un mondo in cui testi e programmi possono essere riprodotti indefinitamente a costi bassissimi, solo le grandi concentrazioni aziendali hanno interesse a difendere un copyright così artificiosamente ampio: tipicamente, dunque, hanno interesse a questo copyright i discografici e non i musicisti, gli editori e non gli scienziati e gli scrittori, la Microsoft e non gli sviluppatori indipendenti. La libertà economica dei moderni oggi ha assunto la forma li una libertà non più individuale, bensì aziendale.
Le libertà delle grandi aziende sono ancora le libertà di tutti noi? Nell'ambito della stampa, la libertà dei moderni nacque come una libertà dalla censura politica. Ma oggi un copyright così esteso, cui si accompagna un forte potere aziendale di influenza politica, rende possibili forme di censura economica – una censura che deriva dall'estensione indebita della logica commerciale della stampa ad ambiti tradizionalmente liberi e cooperativi, come quelli della scienza e della cultura. Dobbiamo dunque chiederci se la cooperazione spontanea, al di fuori e al di sopra della collettività politiche, che ha reso possibile il sistema GNU-Linux non sia il modello di una nuova – per alcuni pericolosa - libertà. Una libertà pubblica e collettiva – io posso discutere sul codice solo se rimane aperto e tutti e non viene privatizzato – che rimane distinta dalla libertà politica, aggiungendole tuttavia una nuova e comunitaria ricchezza.
[1] Vedi Benjamin Constant. De la liberté des anciens
[2] W. Ong, Orality and Literacy. The Technologizing of the World, London-New York, Methuen, 1982, cap. IV; trad. it. di A. Calanchi, Oralità e scrittura, Bologna, il Mulino, 1986; H. Innis, The Bias of Communication (1951), Toronto, University of Toronto Press, 1964; trad. it. di A. Lorenzini, Le tendenze della comunicazione, Milano, SugarCo, 1982.
[3] M.C. Pievatolo, I padroni del discorso. Platone e la libertà della conoscenza, Pisa, Plus, 2003, pp. 110 ss.
[4] R. Stallman, “Reevaluating Copyright: The Public Must Prevail” Oregon Law Review, Spring 1996.
[5] I, Kant, Von der Unrechtmäßigkeit des Büchernachdrucks A 79
[6] M. Rose, Authors and Owners. The Invention of Copyright, Cambridge (Mass.), Harvard U.P., 1993, pp. 31-48.
[7] I. Kant, Von der Unrechtmäßigkeit des Büchernachdrucks, A. 80-92.
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