La gabbia d'acciaio e il bazar

Maria Chiara Pievatolo

Questo articolo è stato pubblicato sulla rivista "Linux Magazine"

13-11-2004 22:19:01


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Non vogliamo vivere come voi, non vogliamo vedere la vostra televisione, i vostri film. Non vogliamo la vostra libertà. Vogliamo che la nostra società sia retta dalla sharia, la legge coranica, che la nostra economia non sia determinata dalla legge del profitto. Quando io alla fine di una giornata ho già venduto abbastanza per il mio fabbisogno, il prossimo cliente che viene da me, lo mando a comprare dal mio vicino che ho visto non ha venduto nulla”.

Queste parole si trovano in un libro, Lettere contro la guerra, del viaggiatore e giornalista Tiziano Terzani; il suo autore le ha udite da un commerciante di tessuti incontrato a un raduno di missionari tablighi, in una zona di confine fra Afghanistan e Pakistan. Io le cito per far capire ai miei studenti che cosa intendeva dire il sociologo Max Weber quando affermava che il sistema capitalistico è una gabbia d'acciaio.

I sociologi si occupano dell'ovvio. Ma i grandi sociologi pongono, sull'ovvio, domande che non lo sono affatto. Weber, che non sopravvisse oltre i primi vent'anni del Novecento, si chiese come mai diamo per scontato che la nostra vita debba essere dedicata al lavoro e al guadagno, in concorrenza con chi ci sta accanto. Non sarebbe preferibile guadagnare quanto basta, andare d'accordo con i vicini e avere molto tempo libero? Il comportamento che domina l'epoca capitalistica – scoprì Weber – è così bizzarro perché nasce da una vocazione religiosa. All'inizio dell'età moderna un gruppo di protestanti seguaci di Calvino giunse a credere che la ricchezza fosse il segno dell'elezione divina. I calvinisti non perseguivano il guadagno per ottenere altro, ma perché, secondo loro, la ricchezza indicava che Dio aveva riservato loro un posto in paradiso. Ebbero un tale successo economico da sconfiggere ogni concorrenza: il loro comportamento perse la memoria della sua origine e diventò il comportamento di tutti. La preoccupazione per i beni esteriori – scrive Weber – che alle origini era un manto leggero sulle spalle del devoto, è ora diventata una gabbia d'acciaio.

Che cosa succederebbe se nel bazar del pio mercante di stoffe incontrato da Terzani si installasse una azienda capitalistica? Succederebbe che egli si troverebbe ad avere come vicino un concorrente spietato, e dovrebbe adattarsi o a diventare altrettanto spietato, o a chiudere bottega. Il supermercato uccide il bazar, anche se ormai non ricordiamo più perché qualcuno, in passato, ha deciso così.

Eppure, Eric Raymond , per descrivere il modo cooperativo in cui Linux viene sviluppato, è ricorso proprio alla metafora precapitalistica del bazar: “un grande e confusionario bazar, pullulante di progetti e approcci tra loro diversi (efficacemente simbolizzati dai siti contenenti l'archivio di Linux dove apparivano materiali prodotti da chiunque)”. Linux è ora una realtà industriale e un concorrente pericoloso. Una sbarra della gabbia è stata allentata.

Perché – dal decreto Urbani, fino al Digital Millennium Copyright Act, all'EUCD, al tentativo europeo di estendere i brevetti sul software – si cerca con tanta asprezza di impedire una condivisione di sapere che, avvenendo fuori dal mercato, non è una vera concorrenza commerciale? La risposta più facile è che le pressioni delle multinazionali condizionano burocrazie politiche senza coraggio e senza idee a legiferare al servizio dei loro interessi. Ma c'è anche una risposta meno evidente: per le oligarchie economiche siamo noi la concorrenza. Se condividiamo conoscenza e collaboriamo, diminuisce il potere di chi si basa sulla solitudine del consumatore, alla mercé di quello che gli viene detto e offerto. Dovremmo dunque chiederci se il nostro nemico più temibile si trovi davvero nei bazar remoti dell'oriente, e non invece in luoghi più vicini e familiari.

Link rilevanti

[Lettere contro la guerra] Tiziano Terzani. Letters against the war.

[Eric Raymond] Eric S. Raymond. La cattedrale e il bazar.

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