Questo articolo è in corso di pubblicazione nel volume P. Becchi, G. Cunico, O. Meo (a cura di), Kant e l'idea di Europa, Atti del Convegno Internazionale di Studi (Genova, 6-8 maggio 2004) Genova, il melangolo, 2005
Copyright © 2004 Maria Chiara Pievatolo
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14-01-2005 20:25:20
Sommario
Chi guarda l'Europa da lontano e dall'alto, può vedere il suo faticoso approssimarsi al federalismo in consonanza con lo spirito di Kant. Dobbiamo però chiederci se il diritto che l'Europa va producendo sia altrettanto kantiano. Questa domanda è legittimata dalla circostanza che lo stesso Kant non perseguiva una semplice unificazione politica sovranazionale, bensì una federazione fondata sul diritto. 1
Un aspetto preoccupante, anche se generalmente inosservato, della legislazione che l'Unione Europea va imponendo è l'ampliamento sistematico dei confini della proprietà privata intellettuale e l'inasprimento della sua tutela penale, sia per quanto riguarda il diritto d'autore, sia per quanto riguarda l'estensione della disciplina dei brevetti ad ambiti nuovi, come i programmi per calcolatore, 2 finora immuni. Questa tendenza generale è ben espressa dalla Direttiva 92/100/CEE del Consiglio Europeo, del 19 novembre 1992, la quale impone che le istituzioni – come per esempio le biblioteche pubbliche – che prestano, senza fine di lucro, materiale protetto da diritto d'autore da esse regolarmente acquistato, si facciano esattrici di un compenso per i detentori dei diritti. Infatti, il diritto a mantenere il controllo da parte del detentore dei diritti “non si esaurisc[e] con la vendita o la distribuzione, in qualsiasi forma, di originali o copie di opere tutelate dal diritto d'autore”. 3 Ogni volta che getto uno sguardo su un testo e ogni volta che condivido un testo altrui, anche senza ricavarne del lucro, devo avere il permesso del proprietario. Oggi il copyright sui testi non dura più 14 anni dalla pubblicazione, come era previsto dalla prima legge europea in materia, l'inglese Statute of Anne del 1710, 4 ma settant'anni dalla morte dell'autore. Possiamo dunque dire che, se consideriamo il carattere privato e commerciale del medium con il quale le idee vengono rese pubbliche, il testo, l'Europa mira a una privatizzazione e a una commercializzazione integrale del mondo delle idee, che si estende, temporalmente, dal presente al passato prossimo. Dobbiamo chiederci se questo progetto, perseguito con coerenza e tenacia, incida sull'uso pubblico della ragione e sulla pubblicità che, per Kant, è un principio trascendentale del diritto pubblico.
Il copyright e l'idea stessa della proprietà intellettuale – cioè di un tipo di proprietà che ha ad oggetto enti immateriali – sono una elaborazione storica che assunse un profilo stabile nel corso di due secoli di travaglio, fra '600 e '700. E che Kant, in quanto illuminista e fautore dell'uso pubblico della ragione, non considerò affatto una questione marginale; né la considerarono marginale altri illuministi tedeschi suoi contemporanei, fra cui Johann Albert Reimarus e Fichte, che sentirono la necessità di intervenire su questo tema, fra il 1785, cui risale il kantiano Sulla illegittimità della ristampa dei libri, 5 e il 1793, cui risale la pubblicazione di Beweis der Unrechtmäßigkeit des Büchernachdrucks, di Fichte. 6
Dobbiamo, tuttavia, chiederci se è possibile connettere l'argomentazione particolare dedicata da Kant al tema con il generale problema politico della pubblicità. Coloro che denunciano la privatizzazione delle idee come un pericolo per la democrazia – se per democrazia non intendiamo solo il rituale del voto, ma anche la garanzia di uno spazio pubblico di libera ed aperta circolazione e condivisione del sapere – sostengono che il progetto europeo incide in maniera pesante sulla materia prima della pubblicità. 7 Per rispondere a questa domanda dobbiamo chiarire preliminarmente, prima di affrontare la questione dell'illegittimità della ristampa, il senso politico del concetto kantiano di pubblicità.
Nel primo articolo definitivo di Zum ewigen Frieden Kant caratterizza la repubblica in base a tre princìpi: la libertà di tutti in quanto uomini, la dipendenza di tutti da un'unica medesima legislazione in quanto sudditi, e l'uguaglianza in quanto cittadini (Ak VIII, 349). Kant sostiene che la repubblica scaturisce dalla “fonte pura del concetto del diritto” (Ak VIII, 351), sotto il profilo formale; ma, sotto il profilo materiale, egli si chiede anche se la repubblica non faciliti pure l'attuazione dello scopo della pace:
Se (come non può essere diversamente in questa costituzione) il consenso dei cittadini è richiesto per deliberare “se la guerra debba essere o no”, allora non c'è niente di più naturale che, in quanto quelli dovrebbero assumere su se stessi tutte calamità della guerra [...] essi rifletteranno a lungo prima di iniziare un così cattivo gioco. Viceversa, in una costituzione in cui il suddito non sia cittadino, che dunque non sia repubblicana, fare la guerra è la cosa più facile del mondo, perché il capo non è membro dello stato, bensì suo proprietario, e con la guerra non dovrà rinunciare neanche alla più piccola parte dei suoi banchetti...(Ak VIII, 351)
Kant afferma anche che la costituzione repubblicana, sulla base del criterio della forma regiminis, si caratterizza per la divisione dei poteri e la rappresentanza; questo la distingue dalla democrazia diretta, che è informe (Unform) e dispotica, perché l'identità fra chi delibera e chi esegue la legge produce una situazione paragonabile all'assimilazione fra l'universale della premessa maggiore di un sillogismo con la sussunzione del particolare sotto di esso. In termini logici, una simile assimilazione si ha quando l'universale, pur avendo il quantificatore “tutti”, ha come contenuto un particolare o un elemento singolare preciso. In altre parole: nessuno provvedimento legislativo di una democrazia diretta, o di altro regime dispotico, può essere generale e astratto, ma tutti sono ad hoc (Ak VIII, 352).
Come si concilia la rappresentatività con l'osservazione secondo cui, nella costituzione repubblicana, i cittadini decidono sulla guerra, e questa facoltà che viene loro data rende la guerra stessa difficile, 8 perché la scelta viene fatta da chi deve subire il peso di questa calamità? Nella costituzione repubblicana si deve introdurre un elemento di democrazia diretta, oppure è sufficiente una decisione dei rappresentanti? Nella nota sembra che il consenso dei cittadini sia soltanto virtuale: la libertà è definita come facoltà di non obbedire ad altra legge se non quella cui avrei potuto dare il mio consenso (Ak, VIII, 350). Ma, se è così, i rappresentanti, proprio come i sovrani dell'ancien régime, sono in una posizione tale da poter deliberare sulla guerra senza subirne le conseguenze. E' del resto avvenuto di recente che stati europei formalmente democratico-rappresentativi abbiano partecipato a guerre, senza curarsi del contrario parere di una parte maggioritaria dell'opinione pubblica.
Se leggiamo la Pace perpetua come un progetto meramente istituzionale, questa obiezione non ha risposta. Le democrazie reali ci mettono quotidianamente di fronte a classi politiche che rappresentano solo se stesse e i propri interessi, e che sono sensibili, per lo più, soltanto alle pressioni di lobby potenti - come quelle che premono a favore della privatizzazione delle idee. Per quanto la maggior parte delle critiche al progetto kantiano si rivolga alla praticabilità o alla desiderabilità del secondo articolo definitivo della Pace perpetua, con il suo progetto federale mondiale, il triste spettacolo offerto da alcune democrazie reali mostra che, per quanto concerne la guerra, le radici del fallimento sono rintracciabili anche nella fede nel repubblicanesimo introdotta dal primo articolo. A meno che le democrazie reali – e anche le confederazioni reali – non si differenzino dal progetto kantiano in qualche aspetto essenziale.
Già nel Detto comune si dice che presupporre che il sovrano non possa mai errare, sarebbe rappresentarselo benedetto da doti celesti ed elevato al di sopra dell'umanità. Per questo “la libertà della penna [...] è l'unico palladio del diritto del popolo” (Ak, VIII, 304). La libertà dell'informazione, in altri termini, è un elemento indispensabile per la vita di una comunità politica composta da esseri razionali finiti. E' significativo che Kant, invocando questo palladio, faccia riferimento alla penna – alla tecnologia della parola degli scienziati del suo tempo - e non al torchio, proprio dell'editoria commerciale. La libertà di cui si parla, infatti, è qualcosa di più di una libertà economica e commerciale, in quanto gli è attribuito un senso immediatamente politico.
Si potrebbe pensare – visto che che questa tesi è inserita in una generale argomentazione contro il diritto di resistenza – che il palladio del diritto del popolo non sia niente più di un palliativo, per quanto la sua stessa presenza indichi che il diritto di Kant non si esaurisce negli assetti istituzionali e nel rituale, formalizzato, della rappresentanza.
Ma la posizione di Kant risulta ancora più chiara nella Pace perpetua, ove un articolo segreto viene aggiunto al progetto istituzionale contenuto negli articoli preliminari e definitivi. Kant chiede che gli stati lascino parlare i filosofi sulle condizioni di possibilità della pubblica pace. L'articolo è giustificato come segreto sulla base del fine di non ledere la maestà dei sovrani. Questo segreto, però, non viene rivelato soltanto ai regnanti; è squadernato su una pagina a stampa - sul medium, cioè, che nel XVIII secolo offriva la massima pubblicità possibile. Kant non sta chiedendo la libertà di parlare: se la sta prendendo.
Che i re filosofeggino o i filosofi divengano re non c'è da aspettarselo, e neppure da desiderarlo, perché il possesso del potere corrompe inevitabilmente il libero esercizio della ragione. Che però re e popoli regali (che sono signori di sé stessi secondo leggi di uguaglianza) non facciano scomparire o ammutolire la classe dei filosofi, ma la facciano parlare pubblicamente, è ad entrambi indispensabile per la chiarificazione del loro compito e, dato che questa classe è per sua natura incapace di rivolta e unioni in club, la calunnia di fare propaganda non la riguarda. 9
Gli interlocutori nei confronti dei quali Kant si prende la parola sono, alla stessa stregua, re e “popoli regali”: la filosofia, nella sua prospettiva, non finisce con la democrazia, per risolversi in opinione pubblica e agire comunicativo. Il filosofo, nella prospettiva di Kant, in quanto non è un intellettuale organico, esprime un punto di vista indipendente e ulteriore sia rispetto a quelli dei re, sia rispetto a quelli delle fazioni e delle lobby delle democrazie. Vale la pena sottolineare che Kant, in questo testo scritto dopo l'inizio della Rivoluzione Francese, rimane coerente con le posizioni esposte precedentemente, nello scritto sull'Illuminismo del 1784. In questo scritto, Kant distingue fra un uso vincolato o privato della ragione e un uso pubblico, non vincolato. L'uso pubblico della ragione è quello che ciascuno fa come studioso davanti al pubblico dei lettori, e non può essere ristretto, se si vuole promuovere il rischiaramento. L'ambito dell'uso pubblico della ragione cui pensa Kant è cosmopolitico: il filosofo – e lo studioso in generale - deve poter parlare liberamente in quanto membro di una entità comunitaria non particolaristica e senza confini, che in ultima analisi può identificarsi con la Weltbürgergesellschaft – la società dei cittadini del mondo o la società civile mondiale. 10
La soluzione kantiana al problema dell'autoreferenzialità della rappresentanza non è istituzionale, bensì filosofica: la libertà del sapere è un elemento centrale della politica secondo ragione. Questo elemento spiega anche l'asimmetria fra il lato negativo e il lato positivo del primo principio trascendentale del diritto pubblico, espresso nella seconda appendice alla Pace perpetua: se è vero che “tutte le azioni che si riferiscono al diritto di altri uomini, la cui massima non è compatibile con la pubblicità sono ingiuste” (Ak VIII, 381), tuttavia perché una azione sia giusta non basta annunciarla di fronte a tutti. Infatti, in situazioni di disparità di potere, il dominante può permettersi di annunciare quello che vuole senza trarne nessuna conseguenza per lui sgradevole. Il secondo principio trascendentale del diritto pubblico ha dunque un ambito più limitato: “tutte le massime che hanno bisogno della pubblicità per non venir meno al loro scopo concordano insieme con la politica e col diritto” (Ak VIII, 386). Una politica che rispetti la libertà, la razionalità e l'uguaglianza non deve manipolare le persone, e deve sapersi fermare quando le sue massime, rese pubbliche, incontrerebbero il dissenso degli interessati; ma non è sufficiente l'espressione di un consenso – che può essere frutto di timore, indifferenza, disinformazione – per avere la certezza che la nostra azione politica sia secondo ragione. Solo l'azione politica che ha bisogno che gli interessati vengano a conoscenza e condividano la sua massima – che si basa quindi su una effettiva comunità del sapere e interconnessione degli scopi 11 - rispetta veramente la libertà e la razionalità dei soggetti con cui ha a che fare. In una parola; il solo modo di superare l'autoreferenzialità della rappresentanza è la pubblicità nel suo suo senso più alto, cioè in quanto condizione di possibilità di una cooperazione informata, libera e consapevole.
La politica secondo ragione, dunque, non si limita a produrre degli assetti istituzionali, né può identificarsi con le deliberazioni materialmente frutto di questi assetti: ma può attuarsi – cioè farci fare qualcosa collettivamente, entro i limiti del diritto – solo nel rispetto della forma della pubblicità. 12
Stando così le cose, il regime giuridico dell'informazione assume una importanza decisiva. In un mondo in cui l'informazione fosse interamente privatizzata, ed i proprietari potessero darla e negarla a loro arbitrio, sarebbe davvero possibile smascherare le massime politiche ingiuste e collaborare consapevolmente nel rispetto di quelle giuste?
In un saggio in cui la materia concreta del contendere tende a nascondere la più importante questione astratta, Über ein vermeintes Recht aus Meschenliebe zu lügen (1797). Kant distingue, in merito alla verità, un aspetto oggettivo e un aspetto soggettivo. L'aspetto oggettivo è l'essere vero o falso di una proposizione. Quello soggettivo è la sincerità o veridicità personale. 13
Se la verità fosse patrimoniale sotto il primo aspetto, l'essere vero o falso di una proposizione dipenderebbe dalle volontà del proprietario. 14 Ma questo non può essere: perfino un sistema giuridico libertario, basato su una interpretazione assoluta della proprietà privata, habisogno di una sfera, quella della cognizione e della giustificazione dei diritti, che si sottragga alla proprietà – e quindi all'arbitrio – dei privati.
Il secondo aspetto della verità, quello soggettivo, non riguarda la conoscenza nei suoi contenuti, ma i comportamenti individuali che permettono o no l'accessibilità di tali contenuti ad altri. La menzogna – e similmente la censura e la disinformazione politica ed economica – funzionano così: pur riconoscendo che la verità, oggettivamente, non dipende dal mio arbitrio, io, soggettivamente, mi attribuisco il diritto di stabilire chi può accedervi e chi no. L'accessibilità soggettiva della conoscenza e la sua verità oggettiva sono, d'altra parte, due aspetti distinti ma reciprocamente connessi, nel pensiero kantiano: la libertà dell'uso pubblico della ragione è importante perché il sapere è tale in quanto intersoggettività.
Secondo Kant, non si ha mai, in nessun caso e per nessun motivo, il diritto di mentire, cioè di limitare soggettivamente l'accessibilità della conoscenza; questa tesi è giustificata da ragioni che concernono, in primo luogo, il rapporto della conoscenza col diritto, e, in secondo luogo, il rapporto della conoscenza col mondo: mentire, infatti, renderebbe inutilizzabile la fonte del diritto. 15 Il diritto, per Kant, si fonda su un contratto ideale di tutti con tutti, il cui presupposto è la pubblicità, come uguale accessibilità di ciascuno a ciò che e vero e falso. Chi mente va contro questo presupposto, rendendo la conoscenza accessibile in modo disuguale, a suo arbitrio, e dunque negando in radice la possibilità di un diritto pubblico:
... poiché la verità non è un possesso (Besitztum), sul quale si possa concedere il diritto all'uno e ricusarlo all'altro; ma specialmente perché il dovere della veridicità – soltanto di questo si sta parlando – non fa distinzione fra persone verso cui sia possibile avere questo dovere e persone nei cui confronti sia possibile distaccarsene, bensì è un dovere incondizionato, che vale in tutte le situazioni. 16
Il modo di pensare proprietario, applicato alla conoscenza, riposa dunque su un presupposto giuridicamente insostenibile, perché giustitificherebbe la discriminazione nell'accesso all'informazione, rendendo impossibile la pubblicità e dunque negando la stessa forma trascendentale del diritto pubblico – negando dunque, in sostanza, il diritto stesso. Di questo Kant è perfettamente consapevole. Infatti, egli richiama, come principio intermedio che rende applicabile il dovere di dire la verità, il principio dell'autonomia democratica: 17 nessuno può essere obbligato se non da quella legge alla cui formazione ha contribuito. E designa esplicitamente questo principio come principio di politica, vale a dire di attuazione della dottrina del diritto in quanto prescrizione della ragion pratica.
Una democrazia fondata sul principio dell'autonomia politica dei cittadini può essere autentica soltanto se il consenso di questi ultimi è informato e consapevole. Se l'accessibilità della conoscenza venisse ristretta, per qualsivoglia motivo, i cittadini non sarebbero partecipi del potere politico, ma oggetto di manipolazione, in quanto verrebbe meno, per loro, la possibilità di prestare un consenso degno di questo nome. Un democrazia che limita, per motivi politici, la libertà dell'informazione, o che ne accetta e ne promuove la limitazione per motivi economici, non è una vera democrazia. Le concentrazioni mediatiche, le limitazioni amministrative alla libertà di stampa, la censura economica fondata sull'ampliamento del concetto del diritto d'autore e sui brevetti, non sono, in questa prospettiva, delle trascurabili accidentalità sociologiche o legislative: sono dei veri e propri impedimenti alla democrazia. Questa è la sostanza del formalismo di Kant.
Se l'accessibilità dell'informazione è strutturale e pregiudiziale per il diritto pubblico, la questione del regime del diritto d'autore è rilevante non semplicemente per quanto concerne i rapporti fra privati, ma anche per la stessa possibilità del diritto pubblico. In questa prospettiva, è doveroso fare i conti con il testo del 1785, Von der Unrechtmäßigkeit des Büchernachdrucks. Lo sfondo storico del saggio è il dibattito britannico sulla proprietà intellettuale: il partito dei librai inglesi, appoggiandosi al common law, sosteneva che si trattava di una proprietà in senso stretto, dunque perpetua e illimitata; il partito dei librai scozzesi, che si appoggiava al diritto romano, il quale escludeva la proprietà di cose immateriali, lo negava, e riconosceva solo i termini stabiliti dalla legge statutaria del 1710. La camera dei Lord, come corte di ultima istanza, aveva dato ragione, nel 1774, a questa seconda tesi. Uno degli argomenti degli "scozzesi" era il timore dei monopoli sulla stessa materia prima della vita culturale. 18 Il richiamo finale al diritto romano, compiuto da Kant, fa capire con una certa chiarezza a quale tradizione egli preferisce ricollegarsi.
Kant distingue fra il libro come oggetto fisico e i pensieri in esso contenuti. Il libro come oggetto fisico diventa proprietà di chi lo compra, e non si può limitarne l'uso da parte dell'acquirente – il quale dunque rimane libero di riprodurlo – a meno che questi non dia il suo esplicito consenso. I pensieri pubblicati nel libro rimangono “proprietà” dell'autore a prescindere dalla loro riproduzione, non essendo risorse fisiche esposte alla concorrenza nell'uso e nel possesso. Io posso continuare a pensare le mie idee anche se sono indefinitamente riprodotte. 19 La questione del mio e del tuo si pone solo per gli oggetti fisici, in quanto non possono essere detenuti ed adoperati da tutti nello stesso tempo. Non può porsi nello stesso senso per le idee, proprio perché possono essere riprodotte e pensate da tutti senza che il loro autore sia privato di nulla. La paternità effettiva di un pensiero – possiamo aggiungere - è una questione di verità storica, ma non può essere una questione di proprietà: il plagiario che attribuisce a sé pensieri altrui non è propriamente un ladro, bensì un mentitore.
La conoscenza non è un oggetto fisico esposto alla concorrenza nell'uso; per questo non ha senso sottoporla al regime della proprietà privata per vietarne la riproduzione; viceversa, quando si diventa legittimamente proprietari di oggetti fisici, essi possono venir liberamente riprodotti, proprio in virtù della loro proprietà. 20 Se si ragiona in termini di diritti reali, cioè di diritti sulle cose, l'illegittimità della ristampa dei libri non può venir argomentata. Kant, pertanto, sposta il problema all'ambito dei diritti personali: un libro, a stampa o manoscritto, non è solo un oggetto fisico, ma anche un discorso fatto in pubblico da parte di un autore. L'editore fornisce il medium attraverso il quale il discorso dell'autore raggiunge effettivamente il pubblico. Si può dire, dunque, che l'editore parla a nome di un altro. Ma qualcuno può parlare a nome di qualcun altro solo con l'autorizzazione dell'interessato. La ristampa dei libri è illegittima soltanto in quanto non è autorizzata. L'editore autorizzato deve essere uno solo, afferma Kant, perché una riproduzione da parte di un altro editore sarebbe inutile e danneggerebbe entrambi. 21 Tuttavia, prosegue Kant, il mandato dell'autore all'editore rimane un rapporto esclusivamente personale, che non comporta l'acquisizione della proprietà del testo; questo rapporto personale non si esaurisce in se stesso, ma ha di mira il discorso fatto a un terzo, il pubblico nella sua indefinita ampiezza. L'autore parla a un pubblico, e il pubblico ha diritto al suo discorso a prescindere dall'editore, la cui posizione è giustificata solo come tramite: per questo l'editore non può rifiutarsi di pubblicare, o di mettere a disposizione di altri editori interessati a farlo, un testo di un autore che sia morto, né può far vedere la luce ad opere mutilate o falsificate, o in tiratura limitata rispetto alle richieste. 22
Il carattere di discorso è invece negato alle opere d'arte. Gli oggetti d'arte sono dette da Kant Werke o opera, nel senso di oggetti prodotti, 23 mentre i libri sono detti Handlungen o operae, nel senso di azioni. E dalle premesse kantiane discende che qualsiasi oggetto fisico, in quanto se ne è acquisita legittimamente la proprietà, può essere liberamente riprodotto e le sue copie possono essere cedute ad altri. 24
L'argomento kantiano sostiene il diritto d'autore soltanto in relazione alla persona vivente dell'autore e alla sua azione nei confronti del pubblico; quando questa persona viene meno, l'interesse del pubblico ad accedere ai testi diviene prioritario. E ogni volta che l'opera dell'ingegno può essere trattata come una cosa, oggetto di proprietà, Kant non vede ostacoli alla sua riproduzione: il filosofo di Koenigsberg sarebbe favorevole a quella che oggi viene stigmatizzata come “pirateria”, cioè alla riproduzione e distribuzione di brani musicali, immagini e film, anche a titolo oneroso. Quando acquisto un bene che può essere oggetto di proprietà, se l'ho ottenuto a titolo legittimo, posso farne quello che voglio: posso riprodurlo a mio piacimento e donare o vendere l'originale, o una sua copia, a chi mi pare. Kant sarebbe anche favorevole alla riproduzione di testi per uso personale, perché, per lui, il solo problema della stampa non autorizzatasta nel fatto che qualcuno si prende il diritto di parlare al pubblico a nome dell'autore senza il suo esplicito mandato. Quindi, se io riproducessi un testo senza diffonderlo al pubblico, per leggerlo o studiarlo per conto mio, non farei proprio nulla di male.
Nella tesi kantiana c'è una contaminazione empirica probabilmente consapevole: l'esclusività della riproduzione, da affidarsi a un solo editore, è motivata solo sulla base dell'interesse dell'editore a non avere concorrenza. 25 Nel testo del 1785 non c'è nessuno sforzo di motivare a priori il diritto all'esclusiva; nella Metafisica dei costumi, ove la questione è affrontata in modo più succinto ed astratto, il tema addirittura sparisce.
Nel mondo di Kant, il medium che permetteva la diffusione più ampia e più capillare era la stampa. La stampa richiede strumenti e competenze tecniche specifiche, e organizzazioni specializzate e centralizzate. L'editore di testi stampati offre il medium con cui un discorso può diventar accessibile al pubblico. Per questo i suoi interessi, de facto, sono forche caudine e gli autori devono rispettarli. Ma questo argomento si fonda solo sul fatto: se esistesse un medium in grado di diffondere il discorso dell'autore in maniera più ampia e capillare di quanto faccia la stampa, utilizzabile senza bisogno di organizzazioni specializzate e centralizzate, l'autore, il cui interesse primario è accedere al pubblico, non avrebbe bisogno di passare per le forche caudine editoriali e non sarebbe costretto a concedere i suoi diritti in esclusiva. L'interesse della scienza all'uso pubblico della ragione e alla pubblicità e gli interessi di un sistema di pubblicazione industriale che si basa sull'esclusiva editoriale si sono intersecati solo per una contingenza – ormai superata – legata alle tecnologia della parola dell'età della stampa. Con l'avvento della rete, lo spazio della pubblicità non coincide più - come del resto non coincideva nella mente di Kant – con i privilegi dello stampatore. La libertà della tastiera – il corrispettivo contemporaneo della kantiana della libertà della penna – non ha più bisogno, per farsi pubblica, di scendere a compromesso con gli interessi economici della pruduzione industriale di contenuti. 26
Il copyright dell'età della stampa, avendo perso la sua ragion d'essere tecnica, appare ora una limitazione artificiosa rispetto all'interesse culturale e politico alla pubblicità. La riproduzione dei discorsi non richiede più una organizzazione industriale centralizzata, ma può essere compiuta dal pubblico e dagli autori stessi.
Se alla mutate condizioni nelle tecnologie della parola si reagisce imponendo artificiosamente restrizioni in nome di una proprietà intellettuale ormai priva di giustificazione, perché la sua ragion d'essere tecnica è venuta meno, non si promuove la pubblicità, ma la si soffoca. E ci si condanna non solo alla privatizzazione dell'uso pubblico della ragione, la quale farà sì che per i popoli sia sempre più difficile uscire di minorità, ma anche ad una crescente autoreferenzialità della rappresentanza. Nello scritto sull'Illuminismo, Kant lodava Federico perchè, pur nella dura scorza del suo dispotismo, lasciava libero il germe della tendenza e della vocazione al libero pensiero; questo, nella sua prospettiva, avrebbe portato, a lungo termine, a riconoscere la libertà anche nei principi del governo. Ma a proposito dell'Europa dobbiamo chiederci se essa non si stia trasformando, per così dire, nel negativo di Federico – non sia cioè più attenta alle strutture formali delle istituzioni, che al rischio di dispotismo insito in ogni limitazione dell'uso pubblico della ragione. E, simmetricamente, dobbiamo anche domandarci se queste restrizioni, a lungo termine, non avranno anche effetto sui princìpi del governo.
[1] Nella Garanzia della pace perpetua Kant chiama l'unificazione sovranazionale realizzata con una politica di potenza Universalmonarchie, e la tratta come un “dispotismo senz'anima” (Ak VIII, 367)
[2] Su questo tema si veda il sito della Eurolinux Alliance, presso http://petition.eurolinux.org/index_html?LANG=en.
[3] Si tratta dell'articolo 1, comma 4 della direttiva in oggetto; sul tema si veda la documentazione e la campagna promossa dalla Biblioteca civica di Cologno Monzese presso http://www.nopago.org/.
[4] Sul tema si veda M. Rose, Authors and Owners. The Invention of Copyright, Cambridge (Mass.), Harvard U.P., 1993.
[5] Von der Unrechtmäßigkeit des Büchernachdrucks; la traduzione corrente di Nachdruck, “riproduzione” fa dimenticare che Kant, in realtà, parlava della semplice ristampa, e non del più ampio concetto di riproduzione – anche perché originariamente il copyright aveva ad oggetto solo la ristampa. La mia traduzione italiana del testo kantiano è disponibile presso: http://bfp.sp.unipi.it/classici/kantUdB.html
[6] Fichte risponde a un saggio di Reimarus, “Der Bücherverlag in Betrachtung der Schriftsteller, der Verleger, und des Publikum, nochmals erwogen”, Deutsche Magazin, April 1791, nel quale questi aveva sostenuto che non si può propriamente dare una proprietà intellettuale, e che la libertà della ristampa è limitabile solo per ragioni, contingenti, di pubblica utilità. La traduzione dell'articolo di Fichte verrà resa disponibile al lettore italiano presso http://bfp.sp.unipi.it/classici/.
[7] Si veda per esempio Lawrence Lessig, The future of ideas. The fate of the commons in a connected world, New York, Random House, 2001 nonché Free culture. How big media uses technology and the law to lock down culture and control creativity, New York, Penguin Press, 2004, presso http://free-culture.org/get.it.
[8] Questa tesi, come è noto, sembra aver ricevuto una conferma empirica dall'osservazione che le democrazia tendono a non farsi la guerra fra loro. Si veda per esempio R.J. Rummel, “Democracies ARE less warlike than other regimes”, European Journal of International Relations Vol. 1 (December 1995), pp. 457-479.
[9] I. Kant, Zum ewigen Frieden, Ak VIII, 369-370
[10] L'uso privato della ragione è quello che ciascuno può fare in un certo impiego o funzione civile a lui affidato: solo in questo caso, dal momento che per certe operazioni compiute nell'interesse del corpo comune occorre una certa meccanicità, la restrizione è giustificata. Kant propone alcuni esempi di uso privato, e dunque ristretto, della ragione: quello del contribuente che paga le imposte, quello del militare che esegue gli ordini, quello dell'ecclesiastico che insegna la dottrina della sua chiesa. (Ak VIII, 37-38) La presenza delle chiese mostra che gli enti che possono imporre un uso privato della ragione non sono necessariamente statali: pertanto, non sarebbe contraddittorio aggiungere all'elenco le organizzazioni economiche private, che per funzionare richiedono la stessa meccanicità, o i partiti politici, o anche certe organizzazione sovranazionali.
[11] Quando Kant dice che le azioni conformi al secondo principio trascendentale del diritto pubblico sono conformi al fine generale del pubblico, la felicità, sta forse pensando al concetto di regno dei fini che si ritrova nella Fondazione della metafisica dei costumi (1785): “agisci secondo massime di un membro universalmente legislatore in vista di un regno dei fini semplicemente possibile” (Ak IV, 439). Il regno dei fini si realizzerebbe se le massime conformi all'imperativo categorico fossero seguite universalmente. E dal momento che l'imperativo categorico prescrive non solo la coerenza, ma anche il rispetto della libertà di tutti gli esseri razionali, ne deriverebbe un coordinamento di tutti i fini possibili in una totalità sistematica. Il diritto in senso stretto viene rispettato dall'azione conforme al secondo principio trascendentale del diritto pubblico; se, rispettando il diritto, i singoli e gruppi riescono a coordinarsi sui loro fini, allora possono anche perseguire, collettivamente, la felicità. Sul tema si veda A. Pirni, Il "regno dei fini" in Kant. Morale,religione, politica in collegamento sistematico, Genova, il melangolo, 2000.
[12] Su questo importante tema kantiano si rinvia alla rassegna curata da Nico De Federicis, “La filosofia politica di Kant”, Bollettino telematico di filosofia politica, 2003 http://bfp.sp.unipi.it/kantbib/indice.htm.
[13] Über ein vermeintes Recht aus Meschenliebe zu lügen, Ak VIII, 426.
[16] Ibidem, Ak VIII, 426-427. Inoltre, quando mentiamo “a fin di bene” pensiamo di conoscere tutte le possibili conseguenze della nostra bugia. Solo con questo presupposto possiamo essere sicuri che quello che seguirà dalla bugia sarà buono. Ma questa sicurezza è impossibile per creature finite, che accrescono la loro conoscenza temporalmente e intersoggettivamente: io potrei mentire con la certezza che le conseguenze della bugia saranno rispondenti al mio fine solo se avessi, nel mio isolamento e nella mia finitezza, un controllo conoscitivo totale sul mondo. Un efficiente padrone del discorso dovrebbe anche saper essere padrone del mondo e della conoscenza, nella sua totalità. Senza questa padronanza, la mia menzogna, oltre che ingiusta, rischia di risultare controproducente (ibidem, A 306).
[17] Ibidem, Ak VIII, 427-428. Per quanto Kant, in questo testo, sia molto deciso nell'escludere la menzogna, si potrebbe dire, sulla base dei §§ 44, 52 e 61 della Metafisica dei costumi, che essa, in una condizione di stato di natura, non è un dovere giuridico perentorio, ma soltanto provvisorio – valido dunque nel contenuto, ma senza garanzie al di fuori dell'arbitrio dell'interessato. Giuliano Marini, sulla base dei paragrafi suddetti e del richiamo a At. V, 29 contenuto nella Religione entro i limiti della sola ragione, Ak VI, 99n - “bisogna ubbidire a Dio piuttosto che agli uomini” -, ha ricostruito un argomento kantiano a favore della resistenza in una situazione di diritto provvisorio (G. Marini, Tre studi sul cosmopolitismo kantiano, Pisa-Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 1998). Ma la decisione con cui Kant condanna la menzogna impedisce di ricostruire, in questo caso, un argomento analogo. Kant, per quanto arrivi ad approvare la rivoluzione francese (Der Streit der Fakultäten, Ak VII, 88-89), chiamando le armi dei rivoluzionari divine, non accetta mai il controllo dell'informazione: senza la libertà e la completezza dell'informazione, infatti, una rivoluzione che impugna armi divine non potrebbe distinguersi dalla violenza più cieca. Per questo, ci sono casi in cui si può e si deve resistere, ma non ci sono casi in cui si debba mentire.
In “Figure di uomo politico tra sapienza e prudenza” (Prospettive della morale kantiana, a cura di D. Venturelli, Acqui Terme, EIG, 2001, pp. 217-233) lo stesso Marini mette in luce, a proposito di Zum ewigen Frieden Ak VIII, 378-378, la possibilità di un politico non soltanto prudente, come il moralista politico, né sapiente e prudente, come il politico morale, bensì soltanto sapiente. “Questa figura di un politico soltanto sapiente è di impronta religiosa più che politica, perché solo il cristiano può dire 'il mio regno non è di questo mondo'” (p. 231). Ebbene, la decisione con cui viene negata la possibilità della menzogna, cioè del controllo soggettivo dell'accesso alla conoscenza, suggerisce che Kant sia convinto che, nell'ambito della conoscenza, si debba essere soltanto sapienti, senza approssimazioni.
[18] Si veda M. Rose, Authors and Owners. The Invention of Copyright, cit., pp. 67-91.
[19] I. Kant, Von der Unrechtmäßigkeit des Büchernachdrucks, Ak VIII, 79.
[20] Un'altra diffusa strategia per depotenziare i diritti di proprietà intellettuale si fonda sul depotenziamento della personalità dell'autore, la cui solidità dipenderebbe da una metafisica del soggetto non più sostenibile. Tuttavia, visto che il domicilio della proprietà intellettuale è l'ambito del diritto, ove le “persone” sono intese esplicitamente come costruzioni, questa strategia risulta molto poco efficace.
[21] I. Kant, Von der Unrechtmäßigkeit des Büchernachdrucks, Ak VIII, 85-86..
[23] Kant, quando differenzia l'opera d'arte dal libro, riconoscendo solo a quest'ultimo lo statuto di discorso, si vale di una distinzione antica, condivisa da Platone. L'opera d'arte può essere ridotta a oggetto e copiata perché non è logos, non è argomentazione, e quindi la sua interazione col pubblico non può essere di tipo dialogico. Questo permette di separarla dalla personalità dell'autore e di trattarla come una cosa. Ma – come riconosce lo stesso Kant – anche il libro stampato è un oggetto, in quanto è un prodotto tecnico materiale delimitato e concluso. Questo prodotto contiene, è vero, un discorso, il quale, però, è sottoposto ai limiti del medium che lo propaga: il discorso su un libro licenziato per le stampe è, come il libro, delimitato e concluso. E questo rende possibile quell'equivoco fra oggetto e discorso, cui accenna anche Kant, dal quale è derivata l'attuale interpretazione e restrizione proprietaria dell'informazione.
[24] Ibidem, Ak VIII, 86. M. Rose (op. cit., pp.1-30) ricorda che nel periodo della prima modernità, si pensava il testo come un'azione, e non come cosa, Il copyright della Stationers'Company sotto i Tudor proteggeva il diritto esclusivo di stampare un determinato testo: il sistema dei privilegi era, per la corona, uno strumento di controllo e di censura sull'azione stessa della pubblicazione. In quanto il privilegio regale garantiva alla corporazione dei cartai un monopolio perpetuo, questi erano anche i più accaniti fautori della censura. Kant, quanto interpreta il testo come una azione, adotta ancora una prospettiva protomoderna – con l'importante differenza che chi concede il privilegio è per lui l'autore, e non più il re.
[25] I. Kant, Von der Unrechtmäßigkeit des Büchernachdrucks, Ak VIII 81.
[26] Su questo tema si veda Jean-Claude Guédon, “In Oldenburg’s Long Shadow: Librarians, Research Scientists, Publishers, and the Control of Scientific Publishing”, Arl Proceedings, May 2001 http://www.arl.org/arl/proceedings/138/guedon.html. E' ora disponibile una traduzione italiana, Per la pubblicità del sapere. I bibliotecari, i ricercatori, gli editori e il controllo dell editoria scientifica, Pisa, Plus, 2004, visibile anche in rete presso http://bfp.sp.unipi.it/ebooks/guedon.html.
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