Il pirata di Koenigsberg

Maria Chiara Pievatolo

Questo articolo è stato pubblicato sulla rivista "Linux Magazine"

13-11-2004 21:51:30


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Oggi la proprietà privata intellettuale è un campo di battaglia. Il passato la fa sembrare ovvia, ma la nostra esperienza la contraddice quotidianamente. Le lingue e le leggi funzionano, proprio come Linux, solo in quanto codici pubblicamente condivisi.

Nel 1785, Immanuel Kant avvertiva lo stesso disagio. Kant era un illuminista e sosteneva la libertà dell'informazione contro la censura. Per lui la libertà dell'uso pubblico della ragione era una condizione essenziale della democrazia. Ai suoi tempi la stampa era il mezzo d'informazione più potente. Ma, per essere anche redditizia, aveva bisogno della proprietà privata intellettuale: la libertà della circolazione delle idee dipendeva dal torchio del tipografo e dai suoi interessi economici. Kant si chiedeva se era inevitabile privatizzare le idee per renderle pubbliche nei libri.

Come Richard Stallman, egli distingueva fra il libro come oggetto fisico e i pensieri in esso contenuti. Il libro come oggetto fisico diventa proprietà di chi lo compra. Un proprietario, se vuole riprodurre quello che ha comprato, lo può fare legittimamente. Secondo Kant, quanto si dice per i libri vale anche per altri oggetti: immagini, spartiti musicali, opere d'arte. Una volta che me li sono comprati, posso riprodurli con i miei mezzi, regalarli agli amici o anche rivenderli. E' divertente osservare che Kant, filosofo prussiano noto per il suo moralismo, sarebbe oggi considerato un paladino della pirateria. I pensieri contenuti in un libro, d'altra parte, rimangono all'autore anche se vengono condivisi: chi li ha pensati può continuare a pensarli. Chi sostiene, mentendo, che un certo pensiero sia stato escogitato per la prima volta da lui, commette un falso storico e non un furto. Se si può avere proprietà solo su oggetti fisici, la proprietà intellettuale è in contrasto con i principi della proprietà privata.

Per Kant, tuttavia, il libro era anche un discorso fatto dall'autore al pubblico. Il pubblico dei lettori non viene raggiunto direttamente, come in una conferenza, bensì tramite la mediazione dell'editore. L'editore, dunque, è uno che parla in nome di un altro. Ma lo può legittimamente fare solo con l'autorizzazione dell'interessato. La “proprietà” intellettuale non è un diritto su una cosa ma un diritto personale: posso parlare in nome di un altro solo se ho la sua esplicita autorizzazione. Questo argomento proibisce solo la diffusione non autorizzata di un testo al pubblico, e non può essere esteso alla copia per uso personale.

Se il solo limite alla riproduzione dei libri è la necessità dell'autorizzazione da parte dell'autore, quest'ultimo potrebbe anche attribuirla a tutti, senza riservare l'esclusiva a un editore. Kant, che di solito considera princìpi e non interessi, fa una deviazione strana: l'esclusiva si giustifica perché altrimenti l'editore non avrebbe convenienza a stampare il libro. Per raggiungere il pubblico, l'autore deve piegarmi alla logica economica di chi lo stampa – almeno finché non ci sono alternative alla stampa. Non a caso, la storia della “proprietà” intellettuale cominciò dopo l'invenzione della stampa.

Applichiamo, ora, gli argomenti di Kant al software, nell'età della rete. Oggi io, come autore, non ho più bisogno di piegarmi all'interesse dell'editore, perché posso rivolgermi al pubblico tramite Internet, senza mediazioni. Ma per riprodurre un programma occorre, in generale, l'autorizzazione dell'autore? Sono possibili due risposte: se il codice è discorso, la sua diffusione al pubblico richiederebbe una autorizzazione; se il codice è un oggetto, potrebbe essere ricopiato, distribuito e perfino venduto, una volta legittimamente acquistato. Un regime kantiano della “proprietà” intellettuale sul software avrebbe, dunque, una conseguenza interessante: l'open source, in quanto discorso umanamente leggibile, potrebbe essere protetto non solo con la GPL, ma anche con licenze più restrittive, mentre si potrebbe copiare a volontà il software a sorgente chiuso, a meno di non ridurlo a codice umanamente leggibile, cioè a discorso.

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