Questo articolo è stato pubblicato sulla rivista "Linux Magazine"
13-11-2004 22:37:08
Sommario
La versione PDF dell'ultimo libro di Lessig, Free Culture, è disponibile in rete con una licenza Creative Commons. Può essere copiata e letta senza chiedere il permesso a nessuno. Lessig, da marzo, fa parte del Board of directors della Free Software Foundation. Ma in Free Culture non si parla di programmi, bensì di una questione più fondamentale, anche per la cultura del software libero: la libertà di copiare.
Il copyright, o diritto di copia, fu inventato nel 1710, con una legge inglese nota come Statute of Anne. Era frutto di un compromesso, fra i librai-stampatori, che avrebbero voluto un monopolio perpetuo sui testi, e i molti che lo temevano. Il copyright di Anne non durava, come oggi, settant'anni dalla morte dell'autore, ma quattordici dalla prima pubblicazione, e proibiva solo la ristampa a fini commerciali. Si potevano però fare copie a scopo non commerciale e trarre liberamente ispirazione da testi sotto copyright. La libertà della cultura doveva fare i conti con la censura politica, ma non con quella economica. Scaduti i termini del copyright, i librai scozzesi offrirono riedizioni a prezzi più bassi di quelli dei librai londinesi, Questi andarono in tribunale perché i giudici riconoscessero quel monopolio perpetuo che la legge aveva loro negato, ma furono sconfitti.
Oggi, scrive Lessig, potremmo produrre e diffondere opere creative assai facilmente, con i computer e la rete. Ma stiamo perdendo la libertà di copiare. Per leggere Free Culture sul mio computer, ce la devo copiare sopra. Ma se lobbies miliardarie impongono leggi per le quali chi copia un libro sul suo calcolatore viene trattato come se lo avesse ristampato clandestinamente per rivenderlo, non si vieta la pirateria in senso proprio: si proibisce, semplicemente, di leggere. Se mi si impedisce di far leggere il libro ai miei amici per discuterlo insieme, mi si proibisce, semplicemente, di discutere.
Nel '700, se un autore scriveva un libro sgradito al libraio-stampatore londinese, poteva sempre rivolgersi a un libraio scozzese. Oggi, scrive Lessig, le reti televisive, la cui proprietà è sempre più concentrata nelle mani di pochi, possiedono i diritti di ciò che viene prodotto per loro. Se un autore propone loro un programma sgradito, non solo non lo trasmettono, ma hanno anche il diritto di impedire che venga trasmesso altrove. Il prodotto di queste reti televisive concentrate sarà sempre più omogeneo e costruito per venire incontro al messaggio che i network vogliono comunicare “Non è il partito comunista, per quanto dall'interno lo debba un po' sembrare. Nessuno può discutere senza rischi e conseguenze – non necessariamente il confino in Siberia, ma una punizione, nondimeno. Le prospettive indipendenti, critiche, diverse sono represse. Questo non è l'ambiente per una democrazia” (p. 166).
Se la condivisione, che è il presupposto di ogni cultura libera, diventa presumibilmente illegale, la creatività non verrà esercitata, o verrà esercitata di nascosto, proprio come nell'Unione Sovietica dei tempi di Breznev. “Perché in un mondo che minaccia una sanzione di 150.000 dollari per una singola violazione volontaria del copyright, e che richiede centinaia di migliaia di dollari anche per difendersi contro un'accusa di violazione del copyright, e che non restituirebbe mai al convenuto accusato ingiustamente nessuno dei costi che ha sopportato per difendere il suo diritto a parlare – in questo mondo i regolamenti stupefacentemente ampi che passano sotto il nome di “copyright” mettono a tacere la parola e la creatività. In questo mondo, ci vuole una deliberata cecità per continuare a credere di vivere in una cultura che è libera.” (p.187) In un mondo come questo, Free Culture è un libro che vale la pena di copiare.
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