Credere di essere uguali

Un argomento minimo per un femminismo dell'uguaglianza

Maria Chiara Pievatolo

Questo articolo è stato pubblicato sulla rivista "Democrazia e Diritto", I trimestre 2001, pp. 128-142

11-10-2005 02:19:42


Sommario

Omoioi: l'uguaglianza è un privilegio
Platone: l'uguaglianza come poter essere
Okin: l'uguaglianza universale come rivoluzione sociale
A. Il femminismo della differenza e Platone

Per contrastare l'idea che i problemi degli uomini sono i problemi di tutti, mentre i problemi delle donne sono solo problemi da donne, non è sufficiente ripetere che i problemi delle donne sono i problemi delle donne, ma bisogna mostrare che i problemi delle donne sono i problemi di tutti.

Le donne non sono uguali. Non sono uguali fra di loro, non sono uguali agli uomini, e, anche dove hanno conquistato gli stessi diritti, non sono ugualmente presenti nella cultura, nella società e nella politica. E' facile pensare che l'uguaglianza di diritti - credere di avere dei diritti – sia un tradimento e un inganno. Ma dobbiamo anche domandarci se l'uguaglianza non sia qualcosa di più complesso e incisivo di quanto ci sia stato fatto credere. Che poter essere in modo uguale, essere uguali e credere, semplicemente, di essere uguali siano cose molto diverse fra loro. E, soprattutto, cose diversamente difficili.

Per rispondere a queste domande presenterò tre immagini dell'uguaglianza: l'uguaglianza come privilegio, l'uguaglianza come progetto politico particolare, l'uguaglianza come progetto politico universale. In tutte e tre le immagini le donne hanno una parte rilevante, ma non sono considerate da sole: i problemi delle donne sono i problemi di tutti.

Omoioi: l'uguaglianza è un privilegio

Oggi siamo abituati ad associare universalità e uguaglianza. Ma il luogo di nascita dell'uguaglianza – e degli elementi fondamentali del lessico politico occidentale - è particolare e particolaristico: è la comunità della polis o città-stato dell'antica Grecia. L'uguaglianza è un privilegio riservato a pochi e ha dei costi non indifferenti, sia in termini di doveri degli uguali verso la comunità che li rende tali, sia in termini di oneri di tutti gli altri verso l'aristocrazia degli uguali. Sono uguali fra loro solo alcuni, entro uno spazio politico circoscritto. 1

Un caso esemplare è rappresentato dalla costituzione di Sparta: a Sparta gli Uguali formano una comunità militare aristocratica e numericamente minoritaria (Spartiati), che governa due classi inferiori, una delle quali, quella più numerosa, è composta da servi privi di diritti civili e politici (Iloti). Essere uguali è un privilegio: si è uguali per nascita e a questa uguaglianza è connessa la cittadinanza, cioè il godimento dei diritti civili e politici, nonché il possesso della terra, divisa in lotti inalienabili ed ereditari, e l'esenzione dai gravami dell'economia. Ma essere uguali è anche un onere: non basta nascere Spartiati per essere ammessi fra gli uguali. Bisogna superare un esame fisico alla nascita e una durissima educazione comunitaria e militare, e occorre essere sempre all'altezza, in una comunità politica organizzata come una caserma, di un rigoroso codice d'onore. In questa storia hanno un ruolo anche le donne spartiate, che, facendo parte di una classe dominante che si sente accerchiata dal gran numero dei suoi schiavi, sono molto più libere delle donne di altre città greche. Ricevono una educazione simile a quella dei maschi, amministrano l'economia; fanno - scandalosamente, dal punto di vista di un ateniese - ginnastica, si fanno vedere in pubblico. Come osserva Simone De Beauvoir, 2 nel mondo antico, quando la società, negando la proprietà privata, rifiuta la famiglia, la sorte della donna migliora: dato che i figli appartengono alla comunità, le donne non sono più asservite a un padrone, ma hanno solo il dovere civico della maternità – come i maschi hanno quello della guerra. L'uguaglianza, che assicura alle donne una comunione (metousia) nell'eccellenza e nell'onore, 3 è intesa come un privilegio.

In questo caso, l'uguaglianza si identifica con l'essere all'altezza di un modello, ed è qualcosa che ha dei costi sociali che tutti, a loro modo, devono pagare: sia gli uguali, sia i non uguali. I costi sociali, nel caso di Sparta, comportavano la schiavitù della maggioranza, perché il sistema garantisse il potere e il tempo libero di una minoranza che si voleva compatta e concorde. 4

L'uguaglianza intesa in questo senso è la rispondenza a un modo di essere fissato come modello contenutistico – un modo di essere che per uomini e donne richiede di aderire a un codice di onore per la salvezza della comunità -. Nel caso spartano, questa uguaglianza contenutistica è intesa in senso particolaristico e comporta la subordinazione o l'espulsione di chi non è all'altezza. Se questo tipo di uguaglianza fosse universalistica, il suo risultato sarebbe l'assimilazionismo, cioè il tentativo di ridurre tutti a un unico modello e di eliminare o asservire – in quanto diverso e inferiore - chi non vi si adegua.

Questo paradigma è arcaico, ma ha il pregio di mettere in rilievo un aspetto sociale dell'uguaglianza che rimane anche se i suoi contenuti possono variare: l'uguaglianza, se si realizza di fatto, ha dei prezzi che ricadono sull'intera struttura della società – perfino quando si tratta, come in questo caso, dell'uguaglianza di un gruppo minoritario di uomini e di donne. L'uguaglianza nasce come un ideale aristocratico – difficile, costoso ed esclusivo. Non è inconsueto, per idee rivoluzionarie di successo: la ahimsa – l'assenza del desiderio di uccidere che, sotto forma di non violenza, divenne un'arma efficacissima di autodeterminazione democratica nelle mani di Gandhi – inizia la sua carriera storica come un privilegio. 5 Ecco che cosa ne dice lo stesso Ghandi:

Ci sono due aspetti dell'induismo. Da un lato c'è l'induismo storico con la sua intoccabilità, l'adorazione superstiziosa di cose inanimate, i sacrifici animali e così via. Dall'altra abbiamo l'induismo della Gita, delle Upanishad e dello Yogasutra di Patanjali, che è l'acme della ahimsa e dell'unità di tutta la creazione, pura adorazione di un solo dio immanente, informe, imperituro. Il nostro popolo ha cercato di interpretare Ahimsa, che per me è la gloria maggiore dell'induismo, come se essa fosse destinata esclusivamente ai Sannyasi. Io non condivido questo punto di vista. Sono del parere che sia un modo di vivere che l'India deve mostrare al mondo. 6

Platone: l'uguaglianza come poter essere

Abbiamo parlato, finora, di un modello di uguaglianza come essere, cioè come adeguatezza a un paradigma. Consideriamo, ora, una accezione diversa dall'uguaglianza: l'uguaglianza non come essere, ma come poter essere. Abbiamo visto che l'uguaglianza come essere comporta o esclusivismo, o assimilazionismo, o entrambi gli aspetti – perché è una strada obbligata. L'uguaglianza come poter essere è invece immaginabile non come una via a senso unico, ma come un crocevia, dal quale si dipartono più strade. Questa idea fu pensata da Platone nella Repubblica, proprio in relazione al problema delle donne.

Platone, assieme a John Stuart Mill, è il solo grande filosofo maschio della tradizione occidentale che si interroga sul problema delle donne come problema politico di tutti – addirittura nel libro teoreticamente centrale della sua opera più importante.

Platone non era un femminista, o, perlomeno, non apprezzava la cosiddetta femminilità: personalmente viveva in un mondo misogino – Sparta era una scandalosa eccezione – e condivideva le idee dei suoi contemporanei, per quanto ammettesse anche le donne alla sua scuola. Perché allora parla delle donne? Di quelle donne che, nella sua città, vivevano segregate sotto la tutela di padri, fratelli, mariti?

Il progetto della Repubblica è un progetto di giustizia, nel quale si pone il problema di quello che noi oggi chiameremmo conflitto di interessi per i governanti. Platone propone una soluzione drastica: l'economia deve esser subordinata alla politica – gli imprenditori non devono governare perché sono legati alla necessità del bisogno e di interessi particolari – e in chi governa deve essere rimossa la causa del conflitto di interessi. Le classi governanti, pertanto, non devono avere né famiglia né proprietà privata. Nel mondo antico l'oikos, la comunità domestica, era una struttura schiavista e patriarcale che fungeva da cellula essenziale dell'economia, cioè, appunto, dell'amministrazione delle casa. 7

Una volta eliminata la famiglia, e dunque la giustificazione della peculiarità del ruolo femminile sulla base della sua funzione familiare, rimangono due strade: o si tratta la differenza sessuale – quello che le donne sono – come assoluta e indipendente dalla storia, oppure ci si chiede che cosa le donne possono essere. Ma per farsi questa domanda occorre essere convinti, preliminarmente, che i problemi delle donne sono i problemi di tutti, perché le donne fanno parte della città esattamente come gli uomini – come già sapevano gli Spartani. 8

La soluzione di Platone è che alle donne deve essere data la stessa istruzione, gli stessi diritti e gli stessi ruoli che vengono dati ai maschi. Solo così si vedrà quello che sanno fare. Solo così si vedrà quello che sono. L'uguaglianza di Platone non è uguaglianza come essere, ma uguaglianza come poter essere. Non importa come sono ora le donne; per sapere come possono essere le donne dobbiamo dar loro le stesse possibilità reali degli uomini – lo stesso accesso alla politica e la stessa educazione – e quello che saranno dipenderà da loro. 9

Nella Repubblica questa tesi viene sostenuta con due argomenti:

  1. l'argomento della marginalità funzionale del sesso biologico: c'è motivo per assegnare funzioni differenti sulla base del sesso biologico? Se si considerano gli animali che lavorano nel contesto culturale umano, bisogna rispondere negativamente a questa domanda. Per esempio, alle femmine dei cani da guardia vengono assegnati, senza difficoltà, gli stessi compiti di caccia e di custodia assegnati ai maschi, e non vengono lasciate in casa come adynatoi (prive di potenzialità), per la generazione e l'allevamento dei cuccioli. Nel caso dei cani da guardia, la divisione del lavoro non avviene in ragione del sesso, ma in ragione della differente forza fisica - distinzione, questa, le cui linee di confine non coincidono necessariamente con quelle del sesso. E non è possibile servirsi di più animali per un medesimo uso, se non diamo loro il medesimo allevamento e la medesima educazione. [451d ss] L'educazione, dunque, ha un ruolo decisivo: perfino i cani da guardia non sono creature determinate, un volta per tutte, dalla natura, ma sono tali perché l'addestramento sviluppa alcune loro potenzialità, che altrimenti rimarrebbero inespresse. La stessa cultura che discrimina gli esseri umani in base al sesso biologico, tratta, contraddittoriamente, questo elemento come non essenziale quando ha a che fare con degli animali che hanno un ruolo nel suo contesto.

  2. l'argomento della rilevanza della differenza: Platone sa benissimo che la sua tesi è audace, perché si presta alla seguente obiezione tradizionalista: la natura delle donne differisce da quella degli uomini, e dunque occorre destinarle a lavori diversi da quelli maschili. Che ragione c'è di derogare a questo principio di divisione attitudinale del lavoro? [452b ss] Platone risponde con un esempio: è vero che i calvi sono diversissimi da quelli che hanno i capelli, ma, una volta riconosciuto questo, se capita che i calvi facciano i calzolai, non c'è comunque ragione di impedire l'esercizio di questo mestiere a quelli che hanno i capelli. Infatti, l'avere o non avere i capelli è del tutto irrilevante rispetto all'esercizio del mestiere del calzolaio.

    Analogamente, possiamo riconoscere che maschio e femmina sono diversi, per quanto riguarda la sfera riproduttiva. Ma questa differenza non è rilevante per quanto concerne le capacità in altri campi, a meno di voler sostenere che attività poco importanti come la tessitura e la cucina siano tipicamente femminili. Al massimo, se c'è differenza fra uomini e donne, questa differenza può essere nel grado e non nella specie, e fra individui e non fra generi.

    Possiamo dunque concludere che le donne possono fare le stesse cose che fanno i maschi. Quello che sono le donne e quello che sono gli uomini non è connesso a differenze assolute, ma viene in luce sempre storicamente e relativamente, in connessione a criteri che spetta a noi, di volta in volta, chiarire.

L'accettazione o meno di questo argomento può fungere da cartina al tornasole per distinguere fra femminismo dell'uguaglianza e femminismo della differenza. Il femminismo della differenza 10 accusa Platone di non aver valorizzato le attività tipicamente femminili e di aver fatto delle donne degli “uomini onorari”. Vale tuttavia la pena sottolineare che Platone ha scelto una via difficile quando avrebbe potuto imboccarne una facile: se avesse detto che le donne potevano essere cuoche e tessitrici avrebbe sfondato una porta aperta. Mentre sostenere che le donne possono essere guerriere, filosofe e politiche era – ed è - molto più arduo e molto più coraggioso. L'uguaglianza come poter essere è difficile e socialmente costosa: Platone era consapevole che essa non si può ottenere con la retorica dei diritti – non basta credere di essere uguali -, ma richiede la rivoluzione nella società e nella cultura, perché impone che la famiglia stessa sia messa in discussione. Ma questa scelta difficile comporta che alle donne siano offerte nuove possibilità – e non semplicemente un apprezzamento retorico di quello che capita loro di essere diventate.

Okin: l'uguaglianza universale come rivoluzione sociale

L'uguaglianza dei pochi ha dei prezzi che nel mondo antico venivano generalmente pagati dalle donne e dagli schiavi, con le loro differenze imposte; l'uguaglianza dei molti ha dei costi ancora più radicali. Quanto siano radicali questi costi lo si può vedere nel pensiero della femminista americana Susan Moller Okin.

Per imporre le donne all'attenzione della politica si può usare un metodo semplice: produrre una descrizione della donna e delle sue eventuali peculiarità morali, e riservarle dei diritti corporativi che la integrino, o, meglio, la coordinino, al mondo politico maschile. Ma il passaggio dalla constatazione empirica di una differenza alla sua celebrazione teorica è ambiguo, sia sul piano filosofico, sia su quello politico. 11 In questo caso, infatti, il dato dell'esperienza viene assunto nel cielo della teoria come se fosse naturale, senza che ci si interroghi sulla sua origine storica e sociale. Per usare l'esempio di Platone: perché celebrare la tessitura e la cucina come attività tipicamente femminili, senza chiedersi come mai le donne tendono ad essere – o sono soltanto - tessitrici e cuoche? 12 La celebrazione della differenza è un'arma a doppio taglio: se valorizzare le donne significa valorizzarne la differenza esistente, perché criticare la storia nella quale questa differenza si è formata e si colloca?

La critica femminista all’ideale dell’uguaglianza derivante dal pensiero della differenza si basa sulla tesi che l’uguaglianza sia, semplicemente, l'uguaglianza come essere, cioè la conformità a un modello già dato. Questa tesi non considera la possibilità di un'altra idea di uguaglianza: l'uguaglianza come poter essere, nel suo uso giuridico e morale, che ha a che vedere con le relazioni e le possibilità di persone assunte come libere e dunque come in grado di trascendere le classificazioni. In questa prospettiva, la Okin non condivide la tesi di C. Pateman, per la quale, se per femminismo s'intende una lotta per l’uguaglianza delle donne come individui, lavoratrici e cittadine, allora è difficile trovare una difesa contro coloro che lo accusano di voler trasformare le donne in uomini. 13 Un simile modo di ragionare, secondo la Okin, si basa sulla discutibile premessa che le femministe vogliano semplicemente estendere alle donne lo stesso status degli uomini, senza mettere in discussione la sfera, non politica, della vita domestica e senza interrogarsi sulle radici storiche della disuguaglianza. Dal suo punto di vista, la questione fondamentale non è capire in che cosa le donne sono diverse, ma chiedersi perché le donne sono state diversamente trattate: questo non può essere fatto senza una critica politica.

Qual è l'origine storica della differenza? Secondo la Okin, c'è un luogo in cui esiste una differenza socio-economica che non è stata ancora sottoposta a critica: nella famiglia appare naturale che le donne svolgano un lavoro non retribuito, ma fondamentale, che è il lavoro di madre, cameriera, educatrice, cuoca, contabile, baby-sitter, sarta. Gli orari di lavoro – e soprattutto le carriere - sono strutturati in modo tale da essere pensati per qualcuno “con la moglie a casa” che lavora gratis. 14 Il risultato è una sfera domestica ove vi sono persone che sono pressappoco schiave per natura, in cui si forma la percezione della disuguaglianza femminile, e una sfera extradomestica ove la la logica della gratuità è completamente esclusa. Capita anzi che alcuni tentativi di condivisione gratuita – di testi e musica in rete, per esempio - al di fuori delle porte di casa siano criminalizzati, quando contrastano con gli interessi di quella che paradossalmente continua a chiamarsi economia. Eppure, la gratuità del lavoro delle donne è fondamentale per l'organizzazione del lavoro e dell'economia così com'è. Se si spezzassero le mura del domestico, si organizzasse il mondo del lavoro in modo da lasciare spazio per il gratuito, e, viceversa, si riconoscesse il valore economico del lavoro di chi sta in casa, verrebbe rimossa una condizione effettiva di disuguaglianza. Ma tutto questo ha un prezzo. Un prezzo rivoluzionario – che rende assai più facile celebrare la differenza, 15 per continuare a far credere che i problemi delle donne non siano i problemi di tutti. La risposta laconica di Licurgo a chi gli chiedeva di instaurare la democrazia – “Instaura tu per primo la democrazia a casa tua 16 – continua ad essere una sfida.

A. Il femminismo della differenza e Platone

Poiché questo argomento minimo per un femminismo dell'uguaglianza non si vergogna di riconoscere un debito platonico, gli è doveroso fare i conti con la critica antiplatonica del femminismo della differenza. Il femminismo della differenza, tipicamente, sostiene che il Socrate della Repubblica assimila le donne agli uomini, perché ha in mente un unico modello di eccellenza, quello maschile, e non è in grado di apprezzare la diversità femminile. Considereremo, fra le molte, due critiche esemplari: quella di Giulia Sissa e quella di Sylviane Agacinski.

Secondo Giulia Sissa, 17 l'argomento contenuto in Resp. 452b ss. a favore dell'irrilevanza della differenza sessuale per l'assegnazione delle occupazioni è discriminatorio e sessista. Il Socrate della Repubblica afferma, contro un ipotetico interlocutore che fa proprio il buon senso tradizionale, che il genere è un criterio di distinzione rilevante esclusivamente per la procreazione, mentre per la divisione sociale e tecnica del lavoro contano solo le attitudini individuali. Ma “all'interno di questa identità sopravvive impunemente la peggiore delle differenze, l'ineguaglianza qualitativa, l'inadeguatezza, l'inferiorità”. Infatti le donne, nella città ideale, fanno le stesse che fanno gli uomini, ma meno bene; e Socrate, “con una grossolana decisione di non pertinenza del discorso”, liquida “la specificità e la realtà del lavoro femminile”, che ha a che vedere con la cucina e con la tessitura, e che egli si guarda bene dal valorizzare. In questo modo, la dissomiglianza sessuale viene concepita “come una variante individuale: ogni individuo sarà più o meno abile, in una data attività, secondo che sia maschio o femmina”.

Questa tesi è discutibile per due ragioni.

In primo luogo,se la differenza sessuale fosse un criterio che permette di predire con assoluta certezza l'inferiorità di un sesso rispetto all'altro, non sarebbe una variante individuale. Socrate e Glaucone, in 455a ss. Affermano invece che il sesso non può essere un criterio per prevedere il grado di eccellenza individuale in una medesima attività, sebbene ritengano che le donne siano in generale inferiori agli uomini. Questa affermazione è coerente con l'idea che la physis o natura di una persona non va intesa come un intero dato, ma come qualcosa che si rivela, nelle singole attività, solo se messa alla prova. [455b-c]

In secondo luogo,nell'economia del ragionamento del V libro della Repubblica, una valorizzazione delle tradizionali attività femminili sarebbe stata non solo controproducente, ma autolesionista. Platone vuole dimostrare a un interlocutore, ipotetico nel dialogo, ma realissimo ai suoi tempi e forse anche ai nostri, che non esistono attività specificamente femminili o maschili: perciò le donne possono accedere indiscriminatamente all'istruzione, alla politica e a tutte le altre attività storicamente riservate ai maschi. A ben vedere, il filosofo fa al senso comune del suo interlocutore soltanto una concessione minima, destinate a venir superata dialetticamente: l'inferiorità femminile è tutt'al più una differenza, molto generica, nel grado e non nella specie. Anche se siamo convinti che in generale, gli uomini riescano meglio delle donne, questo non ci autorizza né a precludere alle donne le cosiddette attività maschili, né ad affermare a priori che una singola donna, in quanto donna, sia inferiore a un qualsiasi uomo semplicemente in quanto uomo. L'eventuale inferiorità, essendo una variabile individuale, non è legata né al sesso né al tipo di attività, e può essere accertata solo a posteriori, caso per caso. Ma questo richiede che tutti gli uomini e tutte le donne abbiano la stessa possibilità di venir messi alla prova: il sesso non può essere addotto coerentemente a motivo di discriminazione neppure da un misogino convinto che le capacità delle donne, in generale, siano inferiori a quelle degli uomini.

Che cosa sarebbe successo se Socrate avesse valorizzato la cucina e la tessitura, in quanto attività femminili? Il suo ipotetico interlocutore avrebbe avuto il destro di concludere che, poiché esistono attività specificamente connesse alla physis o natura femminile, allora le donne devono essere assegnate a queste, in base al principio della giustizia come attribuzione a ciascuno del compito che più gli si addice. E così nell'ottima polis, non ci sarebbero state guerriere, filosofe e regine, ma solo tessitrici e cuoche, come avveniva nel mondo di Platone, che è, per molti versi, ancora il nostro.

Sylviane Agacinski 18 critica la tradizione “universalista”, la quale rimanda a una definizione dell'uomo che non deve comprendere determinazioni particolari, come la lingua, il colore della pelle, la religione e il sesso. Questa concezione, secondo l'autrice, è fallace perché confonde caratteri aleatori con una qualità universale “in senso logico”, come è, a suo dire, il sesso: tener conto della differenza dei sessi non comporta una rinuncia all'universale, ma permette di ravvisarne il contenuto concreto e differenziato. Di contro, il modo di pensare “universalista” si ricollega a una tradizione metafisica che, da Platone fino a Kant, oppone l'esperienza al mondo delle idee astratte: una tradizione in cui l'individuo è trattato come un puro soggetto pensante, indipendentemente dalla sua esistenza concreta, e dunque è visto come asessuato.

La Repubblica ci appare uno stato totalitario perché ha la pretesa di imporre a tutti un modello uniforme, omosessuale. La differenza sessuale è infatti ridotta a una differenza biologica, che conta solo per gli accoppiamenti eugenetici, stabiliti dall'autorità politica, come se i cittadini fossero una mandria di animali. Anche l'indifferenza platonica verso il sesso nella distribuzione di ruoli e mestieri presuppone che la differenza sessuale sia insignificante. Per la Agacinski, la differenza fra calvi e chiomati del secondo argomento platonico a favore dell'uguaglianza non è paragonabile alla differenza sessuale, perché quest'ultima è assoluta e binaria, mentre la prima comporta una serie continua e indefinita di passaggi intermedi.

A prescindere dal fatto che il carattere universalmente binario della differenza sessuale, o, meglio, delle sue elaborazioni culturali in forma di genere, può apparire ad alcuni opinabile, 19 la tesi della Agacinski contiene almeno due difficoltà.

In primo luogo,nel V libro della Repubblica Socrate non descrive gli individui come esseri pensanti asessuati. Anzi, non affronta affatto il tema della natura dell'uomo nel suo complesso, ma lo tratta sempre soltanto in relazione a qualche problema ben determinato - per esempio quello dell'assegnazione di una occupazione. La physis è qualcosa che emerge, di volta in volta, se viene messa alla prova, in un determinato campo e in relazione solo a quello.

In secondo luogo,l'efficacia della metafora dell'irrilevanza dell'essere calvi o chiomati per l'arte del calzolaio non verrebbe inficiata anche qualora si considerasse la differenza sessuale assoluta e binaria, di contro agli infiniti gradi intermedi intercorrenti fra chi ha il cranio completamente glabro e chi lo ha ornato da una capigliatura foltissima. E' forse rilevante il carattere discreto o continuo di una differenza, per stabilire la sua attitudine ad essere il criterio discriminante per l'accesso a una professione?

L'argomento della Agacinski sarebbe decisivo solo se la differenza sessuale non fosse una distinzione, in relazione a un carattere particolare, ma fosse intesa aprioristicamente come una opposizione totale. Questo permetterebbe di affermare che se uno dei termini ha un certo carattere, allora l'altro deve godere del carattere opposto: basterebbe sapere, ad esempio, che gli uomini sono calzolai per affermare con certezza che le donne non sanno nemmeno allacciarsi le scarpe. Per quanto l'autrice sembri presupporre una opposizione assoluta quando critica Platone, ella stessa sostiene altrove, più prudentemente, che uomini e donne sono distinti: nessuna delle due versioni dell'umanità è il negativo dell'altra.

In generale, il femminismo della differenza contesta che “le donne, nonostante siano donne, siano incluse come se fossero uomini”. 20 Tuttavia, perché questa contestazione non si riduca a retorica, il pensiero della differenza dovrebbe essere in grado di spiegare in che modo è possibile includere le donne “come se fossero donne”. Forse negando loro la stessa educazione e le stesse opportunità dei maschi e la possibilità di costruire la propria physis mettendola alla prova, come sognava Platone? Com'è possibile affermare la diversità femminile senza confinare le donne in una essenza definita in anticipo e senza confinare quella che è pur sempre una metà dell'umanità, e non una minoranza culturale, in umilianti quote e rappresentanze corporative?

L'ugualitarismo platonico è un'arma potente, di cui sarebbe autolesionistico privarsi. Proviamo, per esempio, ad applicarlo ad un tema contemporaneo, tuttora controverso, come il diritto all'aborto. Coloro che vorrebbero eliminare questo diritto, specificamente femminile, privilegiano l'interesse alla vita di un (potenziale) cittadino rispetto all'interesse delle donne a decidere in proprio del loro corpo. Le donne, cioè, sono trattate come strumenti di riproduzione, al servizio di valori più alti. Ma una lettrice della Repubblica potrebbe chiedere se c'è qualche motivo rilevante per il quale anche gli uomini non possano essere trattati alla stessa stregua, cioè come strumenti di riproduzione, se le donne sono così considerate E se questo motivo rilevante non venisse trovato, chi fosse favorevole alla proibizione legale dell'aborto e all'uguaglianza delle donne, dovrebbe, coerentemente, essere favorevole anche a una regolazione statale degli accoppiamenti dei maschi, sul modello del V libro. Questa è la sfida platonica.

A titolo di controesempio, possiamo considerare le posizioni platoniche di una femminista dell'uguaglianza come Susan Moller Okin. Nella sua prospettiva, Platone scopre, quasi suo malgrado, il problema delle donne - in un mondo ferocemente esclusivo e misogino come quello greco antico - non appena tenta di formulare, in base a un canone di uguaglianza geometrica, un paradigma unitario e riformatore di giustizia politica. Questo lo conduce ad affrontare il problema della famiglia come luogo di potere e di interessi privati, che si contrappongono all'interesse pubblico. Platone è talmente radicale da proporre di eliminare la famiglia e di trasformare la comunità politica in una grande comunità fraterna, nella quale perfino gli accoppiamenti sono determinati in base agli interessi eugenetici della città. Egli, naturalmente, ha di mira la famiglia del mondo greco a lui contemporaneo: una comunità economica schiavista e patriarcale, che si occupava dei bisogni materiali e riproduttivi, mentre a quelli affettivi ed erotici provvedevano, fuori casa, la pederastia e le cortigiane. Numerosi interpreti del Novecento hanno rigettato questa proposta, ritenendola totalitaria, lesiva dei più profondi affetti individuali, o semplicemente inattuabile.

Ma la Okin, su questo tema, è una voce fuori dal coro. Secondo lei non è possibile sostenere, come G.M.A. Grube, che il sistema di accoppiamento eugenetico previsto nella Repubblica violenti le più profonde emozioni umane: la famiglia greca non era affatto il centro delle più profonde emozioni umane. Contro Leo Strauss, il quale afferma che il progetto platonico è fallimentare semplicemente perché gli uomini desiderano per natura avere figli propri, e perché il controllo politico sul comportamento eterosessuale mette a tacere le normali pretese dell'eros, ella osserva che questa critica si regge sul presupposto che la famiglia nucleare borghese-cristiana sia qualcosa di naturale, quando, nell'Atene del V secolo, il luogo prevalente dell'amore erano le relazioni omosessuali e non certo il matrimonio. Grube, A.E. Taylor e Strauss, che trattano la proposta platonica come non realizzabile ed eccessivamente severa, non ricordano che la vita di una qualsiasi donna greca rispettabile era molto più controllata di quella dei componenti delle classi superiori nella polis ideale della Repubblica. Le donne ateniesi rimanevano in uno stato di minorità, e il loro tutore legale poteva, a suo arbitrio, farle sposare a chi voleva o darle a un bordello. Se leggiamo la Repubblica nel suo contesto storico, ci accorgiamo che Platone chiede agli uomini di scindere i doveri coniugali dall'affettività personale, com'era già loro abitudine, ma offre alle donne quell'accesso paritario all'istruzione e alla vita politica che era loro rigorosamente negato. 21

Platone, quando pone il problema della famiglia come luogo di potere privato, va preso sul serio. Perché mai famosi interpreti del suo pensiero trascurano circostanze, altrimenti notissime, della vita e del costume dell'Atene del V secolo? Perché soltanto una femminista dell'uguaglianza adotta la strategia elementare di leggere il filosofo confrontando le sue proposte con la vita familiare degli uomini e delle donne del suo tempo, e non con la famiglia nucleare borghese-cristiana? La tesi fondamentale della Okin può rispondere a queste domande: l'esclusione delle donne e della famiglia dall'oggetto della filosofia politica induce a dare acriticamente per scontato un modello di famiglia particolare, storico, esposto, come ogni altra istituzione sociale, alla discussione e al superamento, e bisognoso di giustificazione.

C'è un legame fra l'assunzione della famiglia come istituzione naturale e necessaria - come qualcosa di dato, al di qua della critica filosofica e della scelta politica - e una definizione filosofica della donna di tipo naturalistico e funzionale. La politica è il luogo della cultura e delle scelte: a coloro che vi sono ammessi è riconosciuto un certo grado di libertà. Chi, di contro, viene confinato nella natura resta fuori dal mondo della libertà. Il modo più semplice per sottrarre un'istituzione sociale alla critica e alla scelta è darla per scontata e trattarla come "naturale": così, il ruolo di chi fa parte di questa istituzione può essere determinato con strumenti e argomentazioni differenti da quelli impiegati per chi è ammesso al mondo della libertà. I filosofi politici, per millenni, hanno parlato dei maschi, in quanto esseri liberi, interrogandosi su che cosa dovessero e potessero fare. Ma questo interrogativo non è stato rivolto alle donne, escluse dal mondo della libertà. Le donne, pur essendo trattate come soggetti di morale e di diritto, sono state viste come enti naturali, in relazione all'uomo. Creature per le quali l'unica domanda appropriata è: "a che cosa servono?" L'arbitrarietà del confine fra natura e cultura e la doppia morale costruita dalla tradizione filosofica occidentale si rivelano insostenibili non appena la filosofia tenta di produrre giustificazioni unitarie. E questo ce lo dimostra, già alle sue origini, Platone, che rimane una pietra dello scandalo per tutte le doppie morali. Anche di quelle che si celano sotto la facile maschera dei diritti corporativi e delle valorizzazioni di differenze anteriori a quanto possiamo scegliere e fare.



[1] Quando Rawls (A Theory of Justice, § 77) sostiene che bisogna trattare ugualmente secondo giustizia soltanto gli esseri umani, compie una operazione concettualmente analoga, anche se la sua uguaglianza spazia su una estensione molto più ampia. Secondo lui, la base naturale della giustizia va pensata come una proprietà del campo (range property): ad esempio, tutti i punti che si trovano all'interno di una circonferenza soddisfano allo stesso modo, nonostante la loro differente posizione nello spazio, alla proprietà del campo di essere parte dell'area del cerchio, e in questo senso vanno trattati come uguali. Le cose che stanno fuori, uguali o disuguali fra loro e con la cerchia interna che siano, non contano.

[2] S. De Beauvoir, Le deuxième sexe, Paris, Gallimard, 1949, trad. it. Il secondo sesso, Milano, Il saggiatore, 1997, p. 116.

[3] Plutarco, Vita di Licurgo, 15,7.

[4] Ibidem,24, 2: gli Spartiati “non potevano assolutamente dedicarsi a un mestiere manuale, e non sentivano nessun bisogno di accumulare denaro con pena e fatica, dal momento che la ricchezza non era affatto invidiata e apprezzata; quindi erano gli Iloti che lavoravano la terra agli Spartiati e corrispondevano loro il reddito...

[5] M. Biardeau, L'Hinduisme, Paris, Flammarion, 1981 (trad. it. L'Induismo, Milano, Mondadori, 1985, p. 50).

[6] Questa affermazione di Gandhi è riportata in “Harijan”, 8 dicembre 1946, p. 432 (trad.it di F. Paris, L'induismo, Roma, Newton Compton, 1995, p. 20)

[7] S.M. Okin, Women in Western Political Thought, Princeton, Princeton UP, 1979, 1992, pp. 28-50.

[8] Secondo una nota critica da parte del femminismo della differenza (v. per esempio W. Tommasi, I filosofi e le donne, Mantova, Tre lune, 2001, pp. 50-57) in Platone l'uomo-filosofo si appropria della capacità di procreare, in una volontà mimetica dell'esperienza femminile, per la quale i protagonisti maschi dei dialoghi divengono spiritualmente partorienti e levatrici (A. Cavarero, Nonostante Platone, Roma, Editori Riuniti, 1991, p. 94). Ma questa appropriazione – almeno se non si rimane abbarbicate al parto come a un privilegio biologico – può anche essere vista come una volontà di far rientrare anche le esperienza femminili in ciò che è umano. Anche per questo Platone, a dispetto del suo tempo, può permettersi di parlare del problema delle donne in un libro di filosofia politica destinato ad essere letto da tutti.

[9] Platone, Repubblica, 455d.

[10] Su alcune posizioni del femminismo della differenza in merito alla questione platonica, si veda l'Appendice A, Il femminismo della differenza e Platone a conclusione di questo stesso saggio.

[11] Si veda l'Afterword a S.M. Okin, Women in Western Political Thought cit., pp. 309-340.

[12] Quando punta tutto sul sesso trascurandone le variabili economiche, sociali, culturali (che differenziano le donne al loro interno, e talvolta in modo radicale) il c.d. pensiero della differenza mostra di non avere (e di non preoccuparsene) una prospettiva generale di trasformazione della società: sicché le donne, magari rese “visibili” nelle assemblee rappresentative e nelle posizioni dirigenti grazie al sistema delle quote riservate, continuerebbero a scontare i condizionamenti di partenza (a cominciare da quello dei carichi familiari) restando avvantaggiate dai nuovi strumenti di “visibilità” solo quelle donne che, né più né meno come adesso, per scelta o per dono della sorte o per tutt'e due si rendono libere da tali condizionamenti. Sono i limiti inevitabili di ogni teoria che interviene sugli effetti dei fenomeni anziché nelle sue cause.” (A.M. Galoppini, Il lungo viaggio verso la parità, Pisa, Tacchi, 1992, p. 342)

[13] C. Pateman, Introduction a C. Pateman, E. Gross (eds.), Feminist Challenges: Social and Political Theory, Boston, Northwestern U.P.,1987, pp. 7-8.

[14] Su questo tema si veda S.M. Okin, Justice, Gender and the Family, New York, Basic Books, 1989 (trad. it. Le donne e la giustizia. La famiglia come problema politico, Bari, Dedalo, 1999)

[15] Sulla praticabilità e sulla efficacia pragmatica di legislazioni e politiche corporative – privilegi, quote, commissioni riservate - entro i sistemi democratici si possono nutrire molti dubbi. La logica corporativa – quella logica che il giovane Marx vedeva in ogni caso come una “zoologia dell'umanità” (MEW, I, 205, [114]) - appare particolarmente fuori luogo se applicata alle donne, che non sono, d'altro canto, una minoranza culturale. Per farsi un'idea del carattere ambiguo, rinunciatario e sostanzialmente conservatore di questa strategia, vale la pena considerare il libro di I.M. Young, Justice and the Politics of Difference, Princeton, Princeton U.P., 1990 (trad. it. Le politiche della differenza, Milano, Feltrinelli, 1996).

[16] Plutarco, Vita di Licurgo, 19,7

[17] G. Sissa, Platone, Aristotele e la differenza dei sessi, in G. Duby, M. Perrot, Storia delle donne, L'antichità, a cura di P. Schmitt Pantel, Roma-Bari, Laterza, 1997. pp. 72-73.

[18] S. Agacinski, Politique des sexes, Paris, Seuil, 1998, trad. it. La politica dei sessi, Milano, Ponte alle Grazie, 1998.

[19] M. Rothblatt, The apartheid of sex: A manifesto on the freedom of gender. New York, Crown Publishers, 1995 (trad. it. L'apartheid del sesso, Il Saggiatore, Milano 1997)

[20] A. Cavarero, Il pensiero femminista. Un approccio teoretico, in F. Restaino, A. Cavarero, Le filosofie femministe, Torino, Paravia, 1999, p. 126.

[21] S.M. Okin, Women in Western Political Thought cit., pp. 28-50.

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