Res publicae: un diritto per esseri umani

Maria Chiara Pievatolo

Questo articolo è stato pubblicato sulla rivista "Linux Magazine"

01-12-2005


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In un momento in cui la disciplina della proprietà intellettuale subisce la pressione di forti lobby private, sembra bizzarro immaginare che anche il diritto – come certe distribuzioni Linux – possa venir pensato per gli esseri umani, prima che per le grandi aziende. Eppure per molti secoli, in Europa, buona parte delle relazioni fra privati sono state governate dal diritto romano - un diritto di un impero estinto, che funzionava solo perché la maggior parte della gente lo considerava valido. Questo diritto, condiviso al di sopra dei confini degli stati, riuscì a creare un linguaggio e dei concetti comuni – tanto che alcuni studiosi, alla ricerca di una legislazione meno lontana dagli esseri umani, hanno pensato di ispirarsi alla sua tradizione.

Per il diritto romano, proprio come per Richard Stallman, la proprietà privata esclusiva si giustificava solo per gli oggetti materiali, perché – a differenza delle idee - non potevano essere goduti in comune. In più, i giuristi romani riconoscevano varie forme di proprietà non esclusiva, su oggetti di diversi tipi.

Le res nullius sono le cose che non appartengono a nessuno, ma solo perché nessuno se le è ancora prese. Le res communes sono invece cose comuni perché, per la loro natura, non possono essere privatizzate: i giuristi romani adducevano come esempi l'oceano e l'atmosfera. Le res publicae sono cose che appartengono al pubblico e vengono tenute aperte al pubblico con il diritto – per esempio strade, porti, fiumi, golene, ponti. Ancor oggi, il carattere pubblico delle strade viene giustificato con l'argomento che un sistema di vie di comunicazione interamente privatizzato obbligherebbe a pagare un pedaggio ad ogni passo, strozzando non solo il commercio, ma la vita stessa di una società. Il diritto romano riconosceva inoltre delle res universitatis, che appartenevano a comunità più limitate – come i collettivi di studenti e docenti che fondarono, in epoca medioevale, le università – e delle res divini iuris, le cose che non potevano venir possedute da nessun essere umano perché sacre.

I contenuti di queste classificazioni variano con il mutare della tecnologia: oggi, per esempio è facile per gli stati rivendicare il controllo e lo sfruttamento esclusivo, in quanto acque territoriali, di porzioni di una res anticamente communis, il mare. Per quanto concerne l'informazione, la tecnologia della stampa e il copyright hanno trasformato i testi e i codici da res communes a res nullius, offrendo strumenti tecnici e giuridici in grado di privatizzare quanto, in passato, poteva essere solo comune.

Codici e idee, tuttavia, non spuntano da sé, come i frutti dei terreni su cui nessuno ha ancora messo le mani, ma si sviluppano in comunità di collaborazione e di conoscenza. Sarebbe quindi più rigoroso trattarli come res universitatis: per esempio, la comunità degli sviluppatori di Gnu-Linux potrebbe essere pensata come una grande universitas, aperta a chi ne accetta le regole e le finalità. Ma la tradizione giuridica antica offre un'altra possibilità: valutare se esiste un interesse comune a trattare spazi di comunicazione – internet, per esempio – codici e idee come res publicae, similmente alle strade e ai ponti su cui ha camminato l'impero romano e, tuttora, si muove la vita delle nazioni, e a proteggere con il diritto, nel mondo delle idee, non solo gli interessi individuali, ma anche quelli collettivi. Res publica, al singolare, è lo stato come entità che appartiene a tutti e non soltanto ad alcuni: degli organismi politici che non riconoscono e non proteggono le res publicae possono coerentemente chiamarsi repubbliche? Questa non è una domanda rivoluzionaria: è semplicemente una domanda antica.

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Carol M. Rose. Romans, roads, and romantic creators: traditions of public property in the information age. in Law & Contemp. Probs.. 89 (Winter/Spring 2003), pp. 89-110.

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