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BFP - Home | Titoli :: schede di lettura: G. Vlastos, Was Plato a Feminist? (1989)

G. Vlastos, Was Plato a Feminist? (1989)
in Feminist Interpretations of Plato, pp. 11-23



Una scheda di lettura
di Maria Chiara Pievatolo

Se per femminismo intendiamo la posizione secondo cui l'uguaglianza dei diritti delle persone non deve essere negata o limitata sulla base del loro sesso, allora dobbiamo riconoscere che

1. nei libri IV-VII della Repubblica la posizione delle donne dell'élite di governo suggerisce un Platone inequivocabilmente femminista
2. nella stessa società ideale della Repubblica, la posizione delle donne artigiane suggerisce un Platone senza equivoci antifemminista
3. nella società alternativa di secondo ordine delle Leggi, la posizione delle donne è ibrida
4. nel suo atteggiamento personale verso le donne dell'Atene del suo tempo, Platone è violentemente antifemminista.

Per capire la posizione di Platone, occorre considerarla tenendo come termine di paragone la lista dei diritti negati alle donne ateniesi sue contemporanee:

1. il diritto all'istruzione; questo diritto, di contro, è riconosciuto alle donne delle due classi superiori della Repubblica
2. il diritto a seguire la propria vocazione professionale: ad Atene l'unica professione aperta alle donne era la prostituzione. Le donne delle classi più basse, per necessità economiche, potevano essere levatrici, balie, fruttivendole e così via. Aristotele (Politica, 1300a6): ricorda che non si può impedire alla donna dell'indigente di andare fuori casa. Nella Repubblica, di contro, alle donne delle classi governanti sono aperte tutte le carriere.
3. il diritto a relazioni sociali non limitate: le Ateniesi non potevano frequentare uomini liberi, a meno che non fossero sacerdotesse, etere, prostitute o venditrici. Questa segregazione sessuale non esiste nelle classi di guardiani.
4. la capacità giuridica: le donne erano sotto la tutela del parente maschio più prossimo. Non potevano agire in tribunale come parti, e anche il loro diritto di testimonianza era marginale. Nella Repubblica, le donne dei guardiani non differiscono dagli uomini.
5. il diritto alla scelta sessuale: ad Atene il matrimonio veniva negoziato fra lo sposo e il parente maschio più prossimo della sposa. Il rapporto eterosessuale fuori dal matrimonio era punito con la massima severità: il solo caso di schiavitù penale riguardava le vergini che avessero infranto questa regola. Fra i guardiani di Platone la morale sessuale è identica per uomini e donne.
6. il diritto di possedere e disporre di proprietà: ad Atene era goduto solo ai maschi; fra i guardiani platonici, è negato ugualmente a uomini e donne.
7. i diritti politici: le Ateniesi non godevano di nessun diritto politico, mentre le donne guardiane sono equiparate agli uomini.

Ma l'innovazione più radicale della Repubblica non è l'estensione dei diritti civili e politici alle donne, già pensata ad esempio da Aristofane, né l'abolizione della famiglia privata, già presente nell'elenco delle bizzarrie antropologiche di Erodoto, bensì il rifiuto del dogma vetusto, mai messo prima in questione nella prosa e nella poesia greca, secondo cui la differenza sessuale determina una differenza nella divisione del lavoro. Come termine di confronto possiamo addurre le Ecclesiazouse di Aristofane, ove le donne, per quanto abbiano conquistato il potere, non rompono la regola dei rituali pubblici segregati - il banchetto è riservato ai maschi - e dei ruoli di lavoro privati loro riservati, come la tessitura.

Sarah Pomeroy sostiene che, dal linguaggio asimmetrico usato da Platone in Repubblica 450c, 451c a proposito della comunione di donne e di figli, si può inferire che le donne siano proprietà dei maschi. Ma questa conclusione è incoerente con la circostanza che in ciascun gruppo matrimoniale ogni donna appartiene ad ogni uomo nel senso che un qualunque uomo potrebbe essere padre dei suoi figli; nello stesso tempo, tuttavia, ogni uomo appartiene ad ogni donna nel senso che una qualunque donna potrebbe essere madre dei suoi figli. Platone usa questo linguaggio semplicemente perché era il modo normale (dal punto di vista del maschio) in cui si parlava dei matrimoni di gruppo: si veda per esempio Erodoto 4.104, 4.172.2. Perfino Prassagora, in una situazione ove la promiscuità è simmetrica per ambo i sessi, dice "rendere le giovani donne compagne di letto comuni per gli uomini, per produrre figlio per ogni uomo che ne voglia" (Ecclesiazouse, 614). Le abitudini linguistiche possono sopravvivere ai pregiudizi che le hanno generate.

Platone, tuttavia, condivide l'opinione greca dell'incapacità delle donne a resistere alla paura, al desiderio e all'impulso - salvo eccezioni. Nell'ottavo libro della Repubblica, parlando della licenza che regna nella democrazia, si deplora la grande isonomia e libertà che si è introdotta nelle relazioni fra uomini e donne. Isonomia significa non solo uguaglianza davanti alla legge, ma uguaglianza per mezzo della legge. Platone, qui, critica ciò che esalta nel V libro perché il carattere attuale delle donne fa sì che la loro sottomissione sia il male minore. L'isonomia per creature che non sanno ragionare e controllare i loro impulsi sarebbe un male.
Ora, l'emancipazione femminile nell'Atene di Platone era pressoché nulla: a proposito della donna nella sua società, Platone dunque non si comporta da conservatore, ma addirittura da reazionario. Come si spiega, allora, la posizione del V libro della Repubblica?

Vlastos propone questa ipotesi: i tratti "femminei" della grande massa delle donne non riguardano le brillanti eccezioni della classe dei guardiani, ma sono tipici delle donne così come sono ora, in un ambiente che non promuove lo sviluppo di menti energiche e caratteri risoluti. Questi tratti, però, dipendono dalla storia e non sono fissati nella natura: nelle circostanze migliori, le donne possono eccellere come gli uomini.

Platone, del resto, aveva appreso la dottrina socratica secondo cui la virtù è la stessa negli uomini e nelle donne. Non avrebbe certo scritto il V libro della Repubblica se fosse stato d'accordo con Aristotele, per il quale l'eccellenza femminile non può essere migliore della mediocrità maschile: se un uomo non fosse più coraggioso di una donna coraggiosa sarebbe un codardo, e se una donna parlasse quanto un uomo normale sarebbe una chiacchierona (Politica 1277b20.23).
All'eredità socratica Platone aggiunge la sua metafisica delle idee: i filosofi re arriveranno all'idea del bene e saranno trasformati da questa conoscenza, in tutta la loro psiche, a partire dalla libido. Per questo non ci sono limiti costituzionali al loro potere. Per arrivare al bene non occorre essere maschi, ma avere ricevuto l'educazione giusta e aver superato gli esami. Anche se Platone pensasse che le donne sono mediamente inferiori agli uomini, da ciò seguirebbe semplicemente che nelle classi superiori le donne sarebbero in numero minore.
Dal momento che la teoria poliitca di Platone non è ugualitaria, la via dell'uguaglianza femminile non può essere vista come una scelta scontata. Se diritti e i doveri dei cittadini devono essere tali da permettere a ciascuno di contribuire al suo meglio alla felicità della città nel suo complesso, le donne avrebbero potuto essere trattate come mogli e serve collettive, senza uguaglianza. Ma Platone ha scelto la strada dell'uguaglianza, almeno nella Repubblica.
Nelle Leggi le donne conservano la stessa educazione e il diritto a relazioni sociali non limitate con gli uomini. Perdono però l'uguaglianza nella scelta professionale, nella capacità giuridica, nel diritto di possedere proprietà e nella scelta del coniuge. Il luogo del femminismo di Platone è la Repubblica: un femminismo il cui fine non è la libertà, bensì l'eccellenza.


Ipertesto a cura di Francesca Di Donato (france[at]sssup.it) Valid XHTML 1.0!