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| Bollettino telematico di filosofia politica |
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· I numeri e le lettere inseriti nella traduzione del testo platonico indicano la collocazione relativa all'edizione classica del testo greco di Henri Estienne (Parigi 1578). · La traduzione è condotta sul testo greco dell'edizione curata da J. Burnet: Platonis, Opera, Oxonii, Clarendon, 1905-122, 5 voll., più volte ristampata. · Nelle note, mi riferisco senza ulteriori precisazioni a Vegetti e Sartori quando considero la traduzione di M. Vegetti in Platone, La Repubblica, traduzione e commento a cura di M. Vegetti, Bibliopolis, Napoli 1998; la traduzione di F. Sartori della Repubblica platonica, datata 1966, ma ancora diffusa (Platone, La Repubblica, traduzione di F. Sartori, Introduzione di M. Vegetti, Note di Bruno Centrone, Laterza, Roma-Bari 1997). Il Perseus Project , ovvero la raccolta di classici on-line, in lingua originale e in traduzione inglese, mette a disposizione il testo della Repubblica platonica, e degli altri dialoghi del filosofo ateniese. Ecco i link utili: La Repubblica in lingua greca: prima pagina. Supporto per il caricamento dei caratteri greci nei testi del Perseus Project. La Repubblica in lingua inglese: prima pagina. Pagina di partenza per i testi di altri dialoghi platonici. 336 b 339 a .......... Vai al testo greco. Io e Polemarco, spaventati, restammo attoniti: ed egli, in mezzo a tutti, si mise ad urlare: «Di che favole trattate da un pezzo, o Socrate? [336 c] E perché siete cosi accondiscendenti l'uno con l'altro, facendovi complimenti a vicenda? Se, invece, vuoi sapere cos'è in verità il giusto, non devi solo interrogare e compiacerti confutando quando qualcuno ti risponda dal momento che sai che è più facile fare domande che rispondere -, ma tu stesso rispondi e di' cosa ritieni essere il giusto. Ed evita di venirmi a raccontare che è il doveroso [336 d], o il giovevole, o il vantaggioso, o il profittevole, o l'utile, ma dimmi in modo distinto e rigoroso come lo definisci; infatti, non sarò soddisfatto se tu continuassi con simili chiacchiere.» In questo brano compaiono i termini greci déon, (doveroso in Sartori; opportuno in Vegetti, che lo ritiene preferibile a doveroso, cfr. p. 58 del vol. I citato); ophélimon, (giovevole in Sartori e Vegetti); lysiteloun, (vantaggioso in Sartori e Vegetti); kerdaléon, (lucroso in Sartori; profittevole in Vegetti, che seguo) e symphéron, (utile, che torna anche nella formulazione trasimachea della giustizia come utile del più forte). Ed io [Socrate], avendolo ascoltato, rimasi perplesso e, osservandolo, ne avevo paura, e penso che se non lo avessi visto prima che lui mi vedesse, sarei rimasto muto. Tuttavia, quando aveva cominciato ad irritarsi a causa del nostro dialogo, fui io a rivolgergli per primo il mio sguardo [336 e], e così mi trovai capace di rispondergli e, tremando, dissi: «O Trasimaco, non essere duro con noi: se io e costui, nella ricerca intrapresa nei discorsi, commettiamo qualche sbaglio, considera bene che sbagliamo senza volerlo. Infatti, anche tu capisci che, se stessimo cercando dell'oro, non staremmo di proposito a compiacerci l'uno con l'altro, durante la ricerca, in modo da compromettere il ritrovamento; ma (capisci che), cercando la giustizia, ben più preziosa di una grande quantità d'oro, non saremmo così privi di senno da cederci reciprocamente il passo, senza impegnarci al massimo per metterla in luce. Pensa così, amico! Ma penso che non ne siamo capaci: dunque, sarebbe molto più opportuno [337 a] che noi fossimo oggetto non di aggressione, ma di compassione da parte di voi esperti.» E quegli, ascoltatomi, sghignazzò in modo sinistro e disse: «O Eracle, questa è l'abituale ironia di Socrate, ed io lo sapevo ed avevo predetto a costoro, che tu non avresti voluto rispondere, che avresti fatto dell'ironia e che avresti fatto di tutto piuttosto che rispondere, se qualcuno avesse interrogato te di qualcosa.» «Sei davvero sapiente» dissi io «o Trasimaco. Orbene, sapevi bene che se tu avessi chiesto a qualcuno quanto è dodici, e interrogandolo gli avessi fatto questa premessa: [337 b] Bada, uomo, di non venirmi a dire che il dodici è due volte sei, o tre volte quattro, o sei volte due, perché non prenderò in considerazione tali sciocchezze sapevi bene che nessuno ti avrebbe risposto, interrogato in tal modo. Ma se egli ti dicesse: O Trasimaco, che dici? Non devo rispondere in nessuno dei modi che hai detto prima? Nemmeno, uomo degno di ammirazione, se capitasse che uno di quelli fosse vero, ma dicendone uno diverso dal vero? [337 c] O cosa intendi dire? Cosa avresti risposto a queste obiezioni?» «Suvvia!» disse, «come se questo caso fosse simile a quello!» «Nulla lo vieta», dissi io. «Ma se anche (i due casi) non fossero simili, ma a chi è stato interrogato sembrano tali, pensi che costui sia meno motivato a rispondere ciò che pensa, sia che noi lo ostacoliamo oppure no?» «Dunque anche tu farai così», disse: «Risponderai in uno dei modi che ho messo da parte?» «Non ne sarei sorpreso», risposi:«se la ricerca conducesse a pensare così». [337 d] «Che accadrà dunque», disse «se io ti mostrerò un'altra risposta, distinta da tutte queste (precedenti), relativamente alla giustizia, e migliore di tutte? Cosa meriteresti di patire?» «Cos'altro», dissi io «se non ciò che si addice a chi è ignorante? All'ignorante, dunque, si addice imparare da chi sa: e mi merito di subire ciò» «Sei proprio buono tu!», disse: «ma oltre a imparare, darai anche dei soldi!» «Senza dubbio, quando mi capiterà di averne», risposi. «Ma ce ne sono!», disse Glaucone: «se si tratta di denaro, Trasimaco, parla pure: tutti quanti noi, infatti, daremo un contributo per Socrate.» [337 e] «Lo so bene», disse lui «affinché Socrate si comporti nel modo consueto: egli, infatti, non risponde in prima persona, ma si appiglia al discorso di un altro che abbia dato una risposta, e si mette a confutarlo» «Come potrebbe rispondere, carissimo», dissi io «uno che anzitutto non sa né dice di sapere e che, inoltre, se anche qualcosa pensa, si è visto proibire di dire ciò che pensa relativamente a queste cose, da parte di un uomo di non poco conto? È più opportuno che sia tu a parlare: [338 a] sei tu infatti che dici di sapere e che sai parlare. Non fare altrimenti, ma fai a me il piacere di rispondere ed insegna a Glaucone qui presente e agli altri». Dopo ch'ebbi detto queste parole, Glaucone e gli altri lo pregarono di non fare diversamente. E Trasimaco, chiaramente, era desideroso di parlare, per fare bella figura, convinto di avere una risposta stupenda, ma pretendeva di insistere che fossi io a dare una risposta. Alla fine acconsentì, e disse: [338 b] «Questa dunque è la sapienza di Socrate: egli non vuole insegnare, ma va in giro per imparare dagli altri, e poi non li ringrazia nemmeno» «Quanto al fatto che imparo dagli altri», dissi «dici il vero, Trasimaco; ma quando dici che io non sono riconoscente, menti: infatti, pago secondo le mie possibilità. Ma posso solo elogiare: infatti non ho ricchezze. E quanto faccia volentieri questo, se qualcuno mi sembra parlare bene, lo saprai bene tu stesso, subito, quando avrai risposto: credo infatti che tu parlerai bene. [338 c] «Ascoltami dunque», disse. «Io dunque sostengo che la giustizia non è altro che l'utile del più forte. Ma perché non fai elogi? Ma non vorrai.» «Qualora io capisca, anzitutto, cosa vuoi dire: infatti, ora infatti non lo so. Dici che giusto è l'utile del più forte. E dicendo ciò, Trasimaco, cosa intendi dire? Non certo una cosa del genere: se al pancraziaste Pulidamante, più forte di noi, sono utili per il suo corpo le carni di bue, tale cibo è insieme utile [338 d] e giusto anche per noi, che siamo più deboli di lui. «Sei disgustoso, Socrate», disse «e travisi il discorso in modo da deformarlo quanto più è possibile» «Assolutamente no, carissimo», feci io: «ma esprimi ciò che intendi dire in modo più chiaro». «Non sai dunque», disse «che delle città alcune sono governate a tirannide, altre a democrazia ed altri ancora ad aristocrazia?» «Come no?» «E non è forse il potere che, in ciascuna città, detiene la forza?» «Certamente» [338 e] «Ebbene, ogni governo al potere stabilisce le leggi in base alla propria utilità, la democrazia con leggi democratiche, la tirannide con leggi tiranniche, e gli altri (governi) di conseguenza: ma poste le leggi, proclamano che è giusto per i governati ciò che per loro stessi (governanti) è utile, e chi lo trasgredisce, lo puniscono come fuorilegge e ingiusto. È questo, carissimo, il giusto che intendo essere uguale in tutte le città, [339 a] l'utile del potere al governo: ma proprio questo detiene la forza, cosicché ne segue, per chi ragiona in modo corretto, che dovunque il giusto è lo stesso, l'utile del più forte.» «Ora ho capito cosa intendi dire», feci io. «Se è vero o no, cercherò di capirlo. Anche tu, Trasimaco, rispondi dunque che giusto è l'utile eppure mi avevi vietato di rispondere in questo modo ma c'è in aggiunta, a questo, l'espressione più forte» [339 b] «Aggiunta proprio piccola!», escalmò. Torna all'inizio della pagina «Assolutamente no», rispose: «ma credi che io chiami forte chi sbaglia, quando sbaglia?» «Io personalmente» dissi, «credevo che tu dicessi questo, quando acconsentivi che i governanti non sono esenti da errore, ma che anche sbagliano.» [340 d] «Sei proprio un sicofante nei discorsi, o Socrate», disse: «Tu, in breve, chiami medico chi sbaglia con chi sta male e proprio relativamente a quello che sbaglia? O chiami calcolatore, chi sbaglia in un calcolo, quando sbaglia, relativamente all'errore? Ma penso che noi usiamo esprimerci così, che il medico si è sbagliato, o il calcolatore si è sbagliato, o il maestro di scrittura; ma ciascuno di loro, in quanto è tale quale [340 e] lo definiamo, non sbaglia mai: cosicché, secondo il pensare rigoroso, dal momento che anche tu parli rigorosamente, nessun esperto di un'arte sbaglia. Colui che sbaglia, sbaglia per il venir meno della scienza, e in questo non è esperto di un'arte: sicché nessun tecnico, nessun sapiente, nessun governante sbaglia proprio allora, quando governa, anche se chiunque potrebbe dire che il medico ha sbagliato ed il governante ha sbagliato. Considera dunque che io ti dia ora tale risposta: ma la risposta più rigorosa accade che sia questa, che il governante, [341 a] in quanto governa, non sbaglia, e non sbagliando dispone ciò che è meglio per lui, e questo dev'essere fatto da chi è governato. Cosicché, come dicevo in principio, dico giusto l'utile del più forte.» Torna all'inizio della pagina [343 a] Quando ormai eravamo a questo punto del ragionamento ed era a tutti evidente che la definizione del giusto si era ribaltata all'opposto, Trasimaco, invece di rispondere, disse: «Dimmi, Socrate, ce l'hai una balia?» «Perché mai?» feci io: «non sarebbe più opportuno rispondere, che domandare cose del genere?» «La ragione», disse «è che ti guarda mentre ti cola il naso e non te lo pulisce quando ne hai bisogno, a te che non le distingui pecore e pastore.» «Che cosa intendi dire con questo?», dissi io. [343 b] «Perché tu supponi che pastori e bovari guardino al bene delle pecore o dei buoi, e li facciano ingrassare e se ne prendano cura, guardando a qualcosa di diverso dal bene dei padroni o di loro stessi; e anche quelli che detengono il potere nelle città, quelli che comandano veramente, tu ritieni che costoro si atteggino nei confronti dei governati diversamente da come ci si potrebbe comportare verso pecore, e che essi cerchino notte e giorno qualcosa di diverso da ciò che gli tornerà utile. [343 c] E sei così fuori strada relativamente al giusto e alla giustizia, e all'ingiusto e all'ingiustizia, da ignorare che la giustizia e il giusto sono un bene d'altri, ma l'utile di chi è più forte e detiene il potere, e danno proprio di chi ubbidisce ed è sottomesso; che l'ingiustizia è invece l'opposto, e comanda sui giusti, che veramente sono ingenui, ed i governati fanno l'utile di chi è più forte, e lo fanno felice nel servirlo, [343 d] mentre non giovano minimamente a se stessi. Considera poi, Socrate, ingenuo oltre misura, che un uomo giusto ha in ogni modo meno di uno che sia ingiusto. In primo luogo, dunque, nei contratti d'affari, qualora questo e quello [il giusto e l'ingiusto] formino una società, non potresti mai trovare, sciolta la società, che il giusto abbia più dell'ingiusto, ma meno: poi, nelle questioni relative alla città, quando ci siano tasse, il giusto pagherà di più in condizioni eguali, l'altro [l'ingiusto] meno; quando invece ci sia da riscuotere, il giusto non guadagnerà nulla, [343 e] l'ingiusto molto. E poi quando ciascuno di loro ricopra qualche carica, al giusto, se non gli capita nessun'altra sciagura, capiterà di avere i propri affari sempre più in pericolo, perché non può curarsene, mentre per il fatto di essere giusto non ricaverà utilità dalla gestione degli affari pubblici; e gli capiterà di essere inviso sia ai familiari che a chi lo conosce, perché essendo giusto non vorrà concedere loro favoreggiamenti: all'ingiusto, invece, tutte queste cose capitano in senso opposto. Intendo quello di cui parlavo or ora, [344 a] quello che è capace di soverchiare al massimo: considera dunque costui, se vuoi valutare quanto gli sia maggiormente utile, in privato, essere ingiusto anziché giusto. Capirai del tutto più facilmente, se arriverai all'ingiustizia perfetta, che rende chi commette l'ingiustizia felicissimo, e massimamente infelici coloro che la patiscono e non vorrebbero commetterla. Questa è la tirannide, che strappa via i beni altrui con inganno e violenza, sia cose sacre che profane, sia private che pubbliche, e non [le porta via] poco a poco, ma tutte insieme: [344 b] di queste ingiustizie, quando in ciascuna specie qualcuno sia stato ingiusto e non sia rimasto nascosto, viene punito e riceve i titoli più turpi e infatti coloro che in queste specie di ingiustizia sono ingiusti, vengono chiamati, a seconda della specie, sacrileghi, sfruttatori di uomini, sfondamuri e rapinatori e ladri -; ma quando uno si impossessi delle ricchezze dei cittadini e di loro stessi, utilizzandoli come schiavi, anziché questi titoli vergognosi viene chiamato felice e beato, [344 c] non solo dai cittadini ma anche da quanti siano informati che ha raggiunto la completa ingiustizia: infatti, coloro che biasimano l'ingiustizia, non la biasimano perché abbiano paura di commetterla, ma piuttosto perché hanno paura di subirla. Cos', Socrate, l'ingiustizia si addice di più all'uomo più forte, più libero e più capace di comandare, e come dicevo fin dall'inizio, il giusto è l'utile del più forte, mentre l'ingiusto è ciò che risulta utile e vantaggioso per se stesso. Torna all'inizio della pagina [348 c] «Certo che lo dico» affermò, «ed ho anche detto perché». «Orbene, quale definizione proponi di esse? L'una la chiami virtù, l'altra vizio?» «Come no?» «Allora, chiami virtù la giustizia, ma vizio l'ingiustizia?» «Chiaro», disse «o dolcissimo uomo, dal momento che sostengo che l'ingiustizia è vantaggiosa, ma non la giustizia». «Allora che dici?» «Esattamente l'opposto», fece. «La giustizia è vizio?» «No, ma piuttosto una nobile ingenuità» [348 d] «L'ingiustizia la chiami allora malizia?» «No, bensì pensiero ponderato», rispose. «Allora, Trasimaco, gli ingiusti ti sembrano essere avveduti e buoni?» «Certo» disse, «quelli che compiutamente sono ingiusti, capaci di sottomettersi città e popoli. Ma tu pensi che io parli allo stesso modo dei tagliaborse. Certo, risultano vantaggiose anche tali cose, qualora restino nascoste; ma non sono degne di trattazione, come invece le cose di cui dicevo or ora». Torna all'inizio della pagina «Che differenza ti fa», disse, «se la penso così oppure no? Ma non confuti il discorso?». «Me lo ricordo», disse «ma non mi piace ciò che dici ora, ed ho qualcosa da dire su queste cose. Se dunque le dicessi, so bene che tu diresti che tengo comizio. [350 e] Quindi, o mi lasci dire tutto ciò che voglio oppure, se vuoi interrogare, interroga: io, come alle vecchie che raccontano le favole, ti dirò Va bene e annuirò oppure dissentirò per cenni.» «No», dissi, «se non per tuo convincimento» «In modo da farti contento» disse, «dal momento che non mi lasci parlare. E cos'altro vuoi?» Torna all'inizio della pagina «Sia», rispose. «Ma non è vantaggioso essere infelice, mentre lo è l'essere felice.» «Come no?» «Dunque, benedetto Trasimaco, la giustizia è più vantaggiosa della giustizia!» «Sia questo, Socrate, il tuo banchetto per le Bendidie!», esclamò. «Da parte tua, Trasimaco», dissi io, «dal momento che sei diventato disponibile con me e hai smesso di fare il difficile. Certo, non ho banchettato del tutto bene, [354 b] ma per colpa mia, non tua: ma arraffando come i golosi il cibo che passa per assaggiarlo, prima di essermi fermato con misura sulla prima portata, ho lasciato il problema di cosa sia il giusto, per indagare relativamente ad esso se sia vizio e ignoranza, oppure sapienza e virtù, e imbattendomi nell'ultimo argomento, se cioè l'ingiustizia sia più vantaggiosa della giustizia, non mi sono trattenuto dal passare da quello a questo, e così mi capita dopo la discussione di non sapere niente:[354 c] ma non sapendo cosa è il giusto, ancor meno saprò se gli tocchi d'essere virtù o no, e se chi ce l'ha sia infelice o felice.» Torna all'inizio della pagina ........................ Torna alle altre testimonianze Luca Mori 123456789 |
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