Il professore dà alle stampe: la pubblicazione ad accesso aperto

Maria Chiara Pievatolo

Questo articolo è stato pubblicato su "Inchiesta. Trimestrale di ricerca e pratica sociale", pp. 26-29, a. XXXV, n.150, ottobre-dicembre 2005, ISSN 0046-8819, Edizioni Dedalo

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24-04-2006


Sommario

1. Il professore dà alle stampe
2. L'industria editoriale in transizione: alcuni dati
3. La situazione italiana

1. Il professore dà alle stampe

Il professore italiano, soprattutto se non è ancora tale, ha bisogno di pubblicare articoli e libri. Le pubblicazioni sono “titoli” indispensabili nei concorsi che gli permetteranno di sedersi finalmente in cattedra, dopo una lunga carriera precaria. Nell'epoca della stampa chi voleva render pubblico il proprio lavoro si doveva rivolgere a un editore; questi si accollava il rischio di stampare l'opera, ottenendo in cambio dall'autore un monopolio temporaneo sulla sua riproduzione, detto copyright. 1 L'editore era un imprenditore che rischiava del proprio mettendo sul mercato un testo che gli avrebbe procurato un qualche guadagno solo se avesse incontrato i gusti del pubblico; il pubblico, a sua volta, grazie all'industria della stampa, poteva accedere al sapere senza i costi proibitivi del vecchio sistema delle copie manoscritte, la cui distribuzione era fatalmente assai limitata.

L'intero meccanismo, per funzionare virtuosamente, presuppone l'esistenza di lettori disposti a sborsare qualche soldo per leggere il libro del professore e compensare l'editore del rischio che si assume. Ma che succede in quei paesi – come l'Italia – popolati per lo più da non-lettori o francamente da semianalfabeti? A rigore, in una simile situazione, gli editori dovrebbero cambiar mestiere o fallire, a meno che qualcuno non abbia interesse a far stampare i libri, anche se non saranno mai comprati e, tanto meno, letti.

Un interesse siffatto è appunto quello della pubblicazione scientifica a stampa. Si scrivono testi difficili, pensati per essere comprensibili, nella migliore delle ipotesi, a una minoranza, o calcolati, nella peggiore, soltanto per vincere concorsi altrimenti deliberati. Ma come convincere un editore a stamparli? In Italia, tradizionalmente, si ricorre o al finanziamento della stampa con fondi di ricerca, o all'adozione dei propri volumi come testi in corsi universitari. Neppure gli editori di antica tradizione culturale e scientifica si vergognano di chiedere al nostro aspirante professore: “Quanti studenti ha? Ha intenzione di adottarlo, questo testo?”

Il copyright, che l'editore richiede tipicamente al suo originario titolare, l'autore, era nato come un monopolio temporaneo per compensare la casa editrice del rischio che si assumeva nello stampare un testo del quale non poteva prevedere il successo sul mercato. Ma il metodo di pubblicazione scientifica italiano non ha più a che vedere né col mercato, né con la pubblicità.

  1. Quando il testo è finanziato da fondi di ricerca, cioè da denaro pubblico, sborsato dal contribuente, l'editore ha tutti i costi coperti e un guadagno garantito già dalla semplice stampa. Perché dovrebbe darsi la pena di distribuire e di promuovere il testo, in un mondo in cui i libri stanno per quindici giorni sugli scaffali delle librerie e finiscono tutti, salvo rarissime eccezioni, ai remainders? In certi dipartimenti universitari italiani si vedono teorie di casse di volumi tutti uguali, ammucchiate lungo i muri, come la biblioteca di Don Ferrante: sono “pubblicazioni” che non sono mai state distribuite e che mai verranno lette, ma che sono state debitamente stampate per far vincere un concorso a qualcuno. L'editore ha intascato i soldi dei cittadini, ha prodotto le sue stampe e le ha abbandonate al loro destino, senza nessun rischio d'impresa e senza mai affrontare il mercato.

  2. Quando la stampa del testo si fonda sull'impegno all'adozione in un corso accade qualcosa di ancora più perverso. Lo studente, che è obbligato all'acquisto per il suo esame, non è un libero lettore, che sceglie un libro perché pensa valga la pena dedicarvi qualche soldo. E' un giovane che si affida al suo insegnante per essere istruito, ma che scopre a suo spese che in questo rapporto non è nient'altro che una garanzia, per un imprenditore che non sa o non può affrontare i rischi del mercato, da parte di un docente che non riesce a rifiutare le sue proposte. Non a caso fra gli studenti universitari corre voce che i professori che si comportano così ne traggano gran lucro - quando tutt'al più ne ricavano una modestissima percentuale sul prezzo di copertina - e i loro testi, letti di malavoglia, vengono però fotocopiati e rivenduti con comprensibile entusiasmo.

Se è il sistema della pubblicazione scientifica italiana ha poco a che vedere col mercato, perché mancano sia imprenditori che si assumono i loro rischi, sia lettori liberi di scegliere, ci si deve chiedere che senso abbia conservarvi istituti, come il copyright, giustificabili, almeno in parte, in un regime di mercato, ma difficilmente spiegabili, e anzi vagamente vessatori, in questa diversa situazione. Perché il cittadino, che ha pagato per la pubblicazione di un testo in qualità di contribuente, con le sue imposte, deve essere costretto a pagarlo ancora, perfino nella sua versione digitalizzata, come se l'editore l'avesse stampato sborsando del proprio? Perché gli studenti, che pagano le tasse, devono essere trattati come una sorta di “parco buoi”?

In questo quadro, perfino in un paese dove i monopoli telefonici e televisivi e il semianalfabetismo dominante rendono difficile la diffusione della rete, internet offre nuove possibilità. Se un autore vuole parlare a un pubblico, non ha più bisogno della lenta e dispendiosa mediazione delle stampe: è molto più facile e assai meno costoso usare direttamente un proprio sito web, o approfittare di quello d'ateneo. Chi frequenta usenet o il mondo dei blog si rende conto immediatamente che l'ambiente telematico, a dispetto della sua “rumorosità”, dovuta alla mancanza di filtri, è l'incubatrice di una opinione pubblica colta molto più vivace di quella che sta all'ombra dei mezzi di comunicazione di massa.

Un professore che mette i suoi testi in rete anziché lasciarli allineati lungo i muri del suo dipartimento ha la possibilità di incontrare dei lettori, spendendo assai meno che per la tradizionale pubblicazione a stampa. Solo per fare un esempio, una modesta rivista on-line, come il Bollettino telematico di filosofia politica, ha avuto, nel novembre 2005, poco più di 11.000 accessi mensili; una ben più nota rivista cartacea della stessa area, pubblicata da un editore di grande prestigio culturale, che la offre anche in rete, ma ad accesso riservato e a pagamento, sopravvive con un capitale di trecento abbonati. Non nomino la rivista perché il mio solo scopo è quello di illustrare una situazione tipica. La rete, con le sue connessioni, permette di avvicinare molti più lettori di quanto la stampa possa mai fare, e a costi infinitamente più bassi.

In rete la valorizzazione di quella che gli economisti chiamano “la lunga coda” 2 è un fenomeno quotidiano. Per ogni tipologia di merce, ma maggioranza relativa della popolazione concentra la sua domanda su un prodotto determinato; ma una maggioranza assoluta, e molto più ampia, vorrebbe una miriade di prodotti distinti, Questa maggioranza forma appunto la cosiddetta lunga coda: una collezione di preferenze di nicchia, condivise ciascuna da pochissime persone, ma che tutte insieme sono fatte proprie da una folla molto più numerosa dalla massa che preferisce il prodotto che domina il mercato.

Nel mondo della stampa e dei mass-media tradizionali questa lunga coda rimaneva fatalmente invisibile: produrre un best-seller è un affare, ma investire su un bel volume apprezzato da pochissimi è una insopportabile perdita. A causa di questi limiti economici e della scarsità delle risorse del mondo fisico, non è possibile stampare tutto. Questa povertà materiale determina, a sua volta, un impoverimento immateriale: avremo una cultura di massa, mentre i libri che si rivolgono a pochi non riusciranno neppure a vedere la luce. Ma in rete questi limiti non esistono: un server costa talmente poco e può pubblicare talmente tanto, che diventa ragionevole scrivere anche per pochi. La notorietà del suo nome è, per l'autore, un capitale, che serve non solo per vincere i concorsi, ma per anche per diffondere le sue idee senza dover chinare il capo ai monopoli mediatici tradizionali, e, più prosaicamente, perfino per guadagnare qualcosa. I nomi noti sono invitati a tenere conferenze e scrivere articoli; e per queste prestazioni vengono pagati, nel complesso, assai di più di quanto potrebbero mai ottenere dalle sparute percentuali sul prezzo di copertina di volumi venduti, comunque, assai male.

Il sistema della pubblicazione scientifica a stampa aveva, tuttavia, anche un'altra funzione: quella di “certificare” il valore di un'opera attraverso il meccanismo del peer review. Nel mondo della stampa, gli alti costi dell'organizzazione industriale hanno fatto sì che una simile selezione dovesse precedere la pubblicazione. Ma in un sistema come quello digitale, ove la pubblicazione di un singolo testo ha dei costi assai ridotti, quest'ordine non è più necessario. La selezione può avvenire successivamente, tramite l'uso delle comunità scientifiche. 3 In questo modo, diviene possibile separare le ragioni commerciali degli editori, da quelle rigorosamente scientifiche, che hanno a che vedere con la valutazione di un testo da parte di un gruppo di persone competenti e non con la sua pubblicazione, da parte di imprenditori che sperano di ricavarne del denaro; e, soprattutto, diviene più facile evitare ambigue e pericolose commistioni di interessi.

Oggi siamo in un momento di transizione. Paradossalmente, l'arretratezza italiana potrebbe essere addirittura uno stimolo ad accelerare il passo verso un nuovo sistema di condivisione delle idee, in grado di arricchire non solo la nostra vita culturale, ma anche gli editori. Per rendersene conto, occorre innanzitutto esaminare alcuni dati, di una fonte che nessuno può accusare di estremismo: l'OCSE.

2. L'industria editoriale in transizione: alcuni dati

Come conferma un recentissimo rapporto OCSE 4 , nei paesi sviluppati la cosiddetta economia della conoscenza ha un ruolo sempre più decisivo. Per produrre innovazione, o, più semplicemente, per rimanere competitivi, il sapere scientifico deve disporre di canali di diffusione rapidi e capillari. 5 L'informazione, in quanto bene immateriale, può essere indefinitamente distribuita senza che nessuno sia privato di nulla: «il valore sociale delle idee e delle informazioni aumenta quando sono condivise e usate da altri.» 6 La propulsione a vapore, se è nota solo ad Erone di Alessandria e alla sua cerchia, è soltanto una buona idea; ma se diventa patrimonio di una società intera, è la rivoluzione industriale.

Secondo i dati OCSE, per l'anno 2000, nell'Europa dei Tredici, il fatturato dell'industria editoriale nel suo complesso, è stato più di 234 miliardi di euro, contro i 260 miliardi degli USA nello stesso anno. Secondo lo US Census Bureau, nel 2004 la pubblicazione a stampa statunitense ha raggiunto un ricavo lordo di 143 miliardi di dollari, cioè un terzo del ricavo dell'intera industria basata sul copyright; nello stesso anno la produzione cinematografica e di video ha ricavato 62 miliardi di dollari, mentre quella musicale soltanto 14 miliardi di dollari, Il valore del mercato statunitense dell'editoria scientifica è stimato fra i 7 e gli 11 miliardi di dollari. 7 Pur tallonata dalla Spagna, l'Italia, secondo i dati OCSE, aveva, all'epoca della rilevazione, la quarta industria editoriale d'Europa, dopo quella inglese, tedesca e francese. L'editoria fornisce il 3% della produzione manifatturiera nazionale; nessuna, tuttavia, delle attuali multinazionali dell'editoria scientifica (Reed Elsevier, Thomson Corporation, Springer, che ha recentemente incorporato Wolters Kluwer, John Wyler) è di origine italiana.

Per il rapporto OCSE, la crescente digitalizzazione e connessione in rete ha reso possibili tre nuove forme di distribuzione dei contenuti:

  1. il cosiddetto Big Deal: le biblioteche e altri sottoscrittori istituzionali – spesso in consorzio - non si abbonano a singole riviste, bensì a un pacchetto di testate proposto da un unico editore;

  2. la pubblicazione ad accesso aperto, finanziata da autori o da fondi istituzionali;

  3. gli archivi ad accesso aperto, finanziati da autori ed istituzioni (CogPrints, eScholarship e altri) 8

Il Big Deal tende a favorire le grandi concentrazioni editoriali, a influenzare il fattore d'impatto degli articoli, e a non garantire la presenza a lungo termine dei contenuti nelle biblioteche, perché non viene più venduta, per sempre, una collezione di testi, ma solo affittato un diritto d'accesso per sua natura temporaneo. 9 Ormai, nelle biblioteche accademiche il 75% del budget destinato all'acquisto dei contenuti viene speso per gli abbonamenti alle riviste. 10 Questo sacrifica quanto destinato all'acquisto dei libri, la cui pubblicazione sta diventando sempre più difficile e costosa 11 – sebbene la monografia sia una componente essenziale per la carriera di un umanista.

Un simile fenomeno può essere spiegato con la cosiddetta serial prices crisis, l'aumento dei prezzi delle riviste in maniera sproporzionata rispetto al tasso di aumento dei prezzi al dettaglio in generale. 12 I prezzi, infatti, dipendono dal “prestigio” delle riviste 13 : una concentrazione editoriale può dunque permettersi di aumentarli ad libitum, avendo la certezza che ad essere sacrificate non saranno mai le sue testate, bensì le pubblicazioni “minori”, che non potranno mai affermarsi per il proprio valore. I sostenitori della pubblicazione ad accesso aperto affermano che una simile tendenza consegna le chiavi dell'accesso al pubblico e alla carriera universitaria nelle mani di monopoli editoriali ed accademici. 14 E questo, in una economia della conoscenza, è un grave danno per la competitività e l'innovazione. D'altro canto, il successo del progetto Genoma – una delle più grandi scoperte scientifiche del nostro tempo - è dovuto anche al fatto che le sequenze di DNA sono state rese pubbliche senza nessuna restrizione. 15

Negli ultimi anni, il rapporto OCSE registra una serie di reazioni a questa situazione:

  1. una diminuzione dei rinnovi degli abbonamenti individuali, sia per l'aumento dei prezzi sia per la possibilità di accesso on-line;

  2. una diminuzione del tasso di nascita di nuove riviste;

  3. poiché gli strumenti per la pubblicazione on-line si sono perfezionati, la possibilità, per gli autori, i direttori di riviste e le biblioteche, di fare a meno della mediazione editoriale è divenuta una minaccia;

  4. gli autori e le istituzioni di ricerca cercano di tenere per sé il copyright, e mettono in discussione il modello editoriale che consiste nel guadagnare da ricerche finanziate con fondi pubblici, restringendo l'accesso ai loro risultati;

  5. il durevole e sproporzionato aumento dei prezzi ha portato malcontento fra gli acquirenti maggiori (cioè le biblioteche di ricerca); si cerca di passare ad una pubblicazione digitale, o alla più costosa multicanalità, cartacea ed elettronica. 16

Queste reazioni mostrano che nel mondo sviluppato si sta diffondendo la consapevolezza che l'editoria tradizionale, basata sul copyright, fatica ormai a svolgere la funzione per la quale è nata: rendere il sapere pubblico e accessibile, in modo da favorire lo sviluppo. Il movimento per la pubblicazione ad accesso aperto non nasce, in questa prospettiva, da un afflato utopistico, ma è una risposta concreta ad una situazione di disagio. la quale può essere superata a vantaggio di tutti solo se l'editoria stessa saprà rinnovarsi. Il rapporto OCSE, per esempio, suggerisce lo spostamento dell'attività editoriale dallo sfruttamento del copyright all'offerta di servizi che aggiungono valore ad oggetti ad accesso aperto: indicizzazioni, offerta di strumenti di ricerca e statistiche d'uso, 17 stampa su richiesta e così via. Occorre, ora, capire in che modo un paese come l'Italia potrebbe profittare di questa transizione.

3. La situazione italiana

Gli autori di opere scientifiche hanno tutto l'interesse a non cedere il copyright agli editori e a permettere la massima diffusione dei loro testi, per almeno due motivi:

  1. le opere scientifiche non sono quasi mai best seller; è dunque assai improbabile che l'autore possa trarre un guadagno economico significativo dalla percentuale sul prezzo di copertina che gli è eventualmente riservata; il “capitale” di un autore è piuttosto la notorietà del suo nome, la cui circolazione aumenta in proporzione alla libertà con cui circolano i suoi testi. 18 Questo capitale può essere variamente sfruttato, o come fondamento per una carriera accademica, oppure, più prosaicamente, in quanto fonte di introiti in relazione ad attività collaterali, come le conferenze e la produzione di articoli per giornali ad alta tiratura.

  2. gli autori non sono retribuiti; anzi, e tipicamente, nel caso delle monografie del settore umanistico, sono obbligati a finanziare le loro pubblicazioni in volume con fondi di ricerca, a meno che non vogliano scaricarne i costi sui loro studenti. Che senso ha cedere il copyright all'editore, quando ci sono tutte le condizioni per trattare e ottenere un regime più vantaggioso, che assicuri una maggior circolazione delle proprie opere e del proprio nome?

Gli editori italiani, dal canto loro, avrebbero molti vantaggi ad abbracciare la pubblicazione ad accesso aperto. Poiché buona parte delle pubblicazioni scientifiche sono finanziate a monte con fondi di ricerca, essi sono già garantiti dalle perdite, a spese di tutti noi. Inoltre, nel nostro paese di non-lettori, una maggiore diffusione delle idee potrebbe stimolare la domanda di libri a stampa e di servizi editoriali Chi s'imbatte, in rete, in qualche testo interessante e desidera leggerlo e conservarlo, trova spesso più comodo e meno dispendioso acquistare il volume cartaceo, piuttosto che stamparselo da sé o leggerlo da schermo. 19

I mezzi per passare all'open access publishing sono già a nostra disposizione, sia sotto forma di software libero per creare e gestire riviste ad accesso aperto, 20 sia sotto forma di archivi elettronici istituzionali (repositories) per preprint e postprint. Nel dibattito sulla pubblicazione ad accesso aperto la via delle riviste e quella degli archivi vengono chiamate rispettivamente golden road e green road 21 : la strada aurea esalta il momento della selezione e della novità, 22 e la strada verde quello dell'archiviazione e della conservazione.

In Italia, 23 per esempio, risiede l'importante archivio internazionale E-Lis (Eprints in Library and Information Science: <http://eprints.rclis.org>); sono inoltre presenti 11 archivi istituzionali amministrati da università, più altri in costruzione o in progetto. Alla fine del 2004, a Messina, la conferenza dei rettori ha celebrato solennemente l'adesione alla Dichiarazione di Berlino, che impegna le istituzioni firmatarie a promuovere concretamente l'open access publishing. 24 Al momento, la Dichiarazione di Berlino è stata firmata da settantacinque rettori su settantasette.

Stando così le cose, in Italia non mancherebbero né la volontà politica, né gli strumenti per rendere effettivamente pubblico il procedimento della pubblicazione scientifica. L'università italiana è esposta all'accusa di essere un sistema clientelare e parassitario. Rendere pubblico il proprio lavoro sarebbe il modo più semplice per mostrare, con i fatti, che questo non è vero. Inoltre, più prosaicamente, il passaggio all'open access publishing in rete, in un momento in cui i fondi di ricerca sono cronicamente scarsi, abbatterebbe i costi di pubblicazione e permetterebbe di impiegare il denaro pubblico per il motivo nominale per il quale ci viene dato: non per pagare gli editori, bensì per fare ricerca.

Eppure, dei più di 47.000 articoli prodotti ogni anno dalle università e dai centri di ricerca italiani e pubblicati in riviste scientifiche internazionali, e del numero ignoto pubblicato in quelle italiane, soltanto una quantità trascurabile viene messa a disposizione del pubblico negli archivi elettronici. 25 Manca inoltre, al di là delle pur meritoria presa di posizione messinese dei rettori uno sforzo istituzionale comune e un impegno strategico per una questione che dovrebbe essere vitale – e che tale viene giudicata addirittura dall'OCSE.

In questo clima, è ben comprensibile che gli autori, resi timidi e servili da un sistema universitario gerarchico e da un interminabile precariato, non siano per lo più in grado di interessarsi del problema della pubblicazione e rinuncino a negoziare i loro diritti con gli editori. In questo momento, chi pubblica ad accesso aperto – traendone invero grandissimi vantaggi – lo fa solo per una scelta personale e consapevole. Sarebbe però sufficiente una politica istituzionale e legale chiara perché i vantaggi di cui ora pochissimi godono venissero estesi a tutti. Basterebbe, per esempio, richiedere che ciascun “titolo” presentato ai concorsi pubblici, pur pubblicato con le modalità che si preferisce, sia tuttavia accompagnato da una sua versione ad accesso aperto, e gli archivi si riempirebbero d'incanto.

I gattopardi sanno bene che il modo migliore per non cambiare nulla è cambiare tutto: l'università italiana ha subito, in pochi anni, due riforme che non hanno affatto risolto i suoi problemi. Ora, però, saremmo in condizione di cambiare molto con un solo, piccolissimo mutamento. Basterebbe semplicemente volere davvero quello che si dichiara.



[1] Si tratta, infatti, di una invenzione britannica: la prima legge europea sul copyright è lo Statute of Anne, del 1710.

[2] C. Anderson, «The Long Tail», Wired, 12.10, 2004.

[5] Ibidem, p. 8. Secondo il matematico Lucio Russo, la rivoluzione scientifica moderna derivò dalla riscoperta di una rivoluzione dimenticata, compiuta dalla scienza ellenistica nel III secolo avanti Cristo. «L'idea, ingenua a pericolosa, di un progresso scientifico continuo e automatico dell'umanità, assicurato dallo sviluppo scientifico, ha potuto affermarsi solo a patto di nascondere l'antica sconfitta della scienza» (L. Russo, La rivoluzione dimenticata, Milano, Feltrinelli, 1998, p. 17). Una delle causa di questa antica sconfitta fu la mancanza di una tecnologia di diffusione del sapere adeguata: per quanto nel III secolo fosse già noto il principio della propulsione a vapore, la rivoluzione industriale che lo applicò fu posticipata di due millenni.

[6] Digital Broadband Content: Scientific Publishing,cit. p. 17.

[7] Ibidem,,p. 14.

[8] Ibidem. p. 57.

[9] Ibidem, p. 58.

[10] Ibidem, p. 27.

[11] Ibidem, p. 29.

[12] Ibidem, pp. 34-35.

[13] Il “prestigio”, nel caso delle riviste scientifiche, è legato alla loro presenza nel catalogo dell'Institute for Scientific Information (ISI), sul quale si calcola il fattore di impatto. Questo catalogo, nato per scopi bibliografici, ha finito per produrre politiche dei prezzi di tipo monopolistico.

[14] Si veda per esempio il saggio di J-C. Guédon, Per la pubblicità del sapere. I bibliotecari, i ricercatori, gli editori e il controllo dell editoria scientifica, cit.. Vale la pena notare che il rapporto OCSE conferma le tesi sostenute dall'autore canadese, citandolo anche in bibliografia.

[15] Digital Broadband Content: Scientific Publishing,cit. p. 60.

[16] Digital Broadband Content: Scientific Publishing,cit. p. 28.

[17] Ibidem, p. 78.

[18] Si veda per esempio P. Greco, «Libertà vo cercando», JCOM, 2-2004: fra le riviste ISI, quelle a più alto fattore d'impatto sono, non sorprendentemente, quelle che scelgono l'accesso aperto.

[19] Questa è l'esperienza della collana di cui sono curatrice, Methexis <http://bfp.sp.unipi.it/hj/index.php?viewPage=3>, la quale mette liberamente a disposizione on-line i volumi in formato pdf, mentre il mio editore – PLUS, editore istituzionale dell'università di Pisa - offre sul mercato, con i vincoli consueti, la loro versione cartacea. Questa iniziativa ha in effetti creato dei problemi a PLUS, ma per una domanda eccessiva rispetto alle sue attese. Mi risulta, inoltre, che altre collane dello stesso editore hanno deciso di imitare questo modello, per i suoi bassi costi e per il suo alto impatto.

[20] Si tratta di HyperJournal, di produzione italiana <http://www.hjournal.org/> e Open Journal Systems <http://pkp.sfu.ca/ojs/>. Sul tema si veda la voce Open Access di Wikipedia.

[21] Uno dei principali sostenitori di questa strada è l'avversario di J-C. Guèdon S. Harnad, la cui home page è la migliore illustrazione dei pregi e dei difetti della sua tesi.

[22] Si vedano per esempio le riviste della Public Library of Science.

[23] Mi baso sui dati recenti presentati dai bibliotecari dei paesi sviluppati alla conferenza Making the strategic case for institutional repositories - CNI-JISC-SURF Conference; Amsterdam, 10-11 May 2005: Completed Questionnaires Country update on academic institutional repositories.

[25] I dati sono tratti da Completed Questionnaires Country update on academic institutional repositories cit., p. 14.

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