Bollettino telematico di filosofia politica
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Ultimo aggiornamento 21 ottobre 2002

Jürgen Habermas, Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, Torino, Einaudi, 2002, pp. 130


Il futuro della natura umana di Jürgen Habermas si apre con la constatazione dell’estrema difficoltà di trovare risposte vincolanti sulla questione della ‘vita giusta’ in uno scenario postmetafisico. La filosofia ha abbandonato la presunzione di delineare il modello di vita giusta, ritirandosi, secondo Habermas, in un metalivello da cui si limita a indagare le caratteristiche formali dei processi di autocomprensione etica dell’esistenza umana, facendo astrazione dei contenuti. Questa astensione è giustificata e comprensibile, secondo il filosofo tedesco, ma il travolgente sviluppo della genetica impone alla filosofia una presa di posizione su questioni morali di tipo nuovo.

Il cuore della riflessione di Habermas è costituito dalla discussione circa l’ammissibilità morale di una genetica liberale (che Habermas sembra ritenere equivalente a una genetica liberista, giacché la definisce regolata dalla legge della domanda e dell’offerta). La discussione di Habermas prende le mosse dall’analisi di due questioni sollevate dalla genetica che esemplificano il pericolo di uno scenario di allevamento selettivo e razziale dell’uomo: la ricerca sugli embrioni e la diagnosi di preimpianto.
La diagnosi di preimpianto permette si sottoporre a test genetico l’embrione fecondato in vitro che abbia raggiunto lo stadio delle otto cellule, al fine di escludere la presenza di malattie prima di procedere all’impianto (evitando, in caso contrario, l’impianto di un embrione malato). Secondo Habermas uno scenario probabile è il seguente: la diagnosi di preimpianto, oggi ritenuta eticamente ammissibile purché circoscritta ai rari casi di gravi malattie ereditarie, finirà per ampliare la sua sfera di liceità, a causa dei successi terapeutici e degli ulteriori sviluppi delle biotecnologie, fino a comprendere interventi genetici sulle cellule somatiche o sui primi stadi embrionali. A parere di Habermas questo probabile slittamento ci costringe a distinguere una genetica negativa (i cui scopi sono terapeutici) da una genetica positiva (i cui scopi sono migliorativi), ovvero a distinguere interventi genetici ritenuti moralmente accettabili e interventi invece ritenuti inammissibili. Ma come è possibile distinguere una genetica positiva da una genetica negativa? E, soprattutto, perché quest’ultima viene considerata moralmente accettabile, mentre la genetica positiva è criticata aspramente come immorale e disumana?
Lo stesso Habermas è costretto a ammettere che tracciare un confine tra genetica positiva e genetica negativa è difficile e comporta l’annoso problema di operare una cesura in una sequenza discreta non interrotta da avvenimenti moralmente significativi. Il confine è necessariamente arbitrario e non fattuale, proprio come lo è il confine politico tra due paesi o la definizione di maggiore età a partire dal compimento dei diciotto anni. La difficoltà di tracciare linee di confine, secondo Habermas, viene usato dal fronte liberale (si legga liberista) della genetica al fine di trascurare qualsiasi differenza tra interventi negativi e interventi positivi, e di lasciare libertà assoluta agli utenti del mercato circa gli interventi genetici.
Habermas ritiene fondamentale tracciare confini assolutamente precisi, nonostante queste difficoltà; ma il problema è che egli non fornisce alcuno strumento per definire il confine tra genetica terapeutica e genetica migliorativa, non offre alcun criterio per indicare, lungo il continuum degli interventi genetici, il punto in cui un intervento non è più terapeutico ma diventa migliorativo.

La questione della sperimentazione embrionale e quella della diagnosi di preimpianto sollevano il problema della considerazione circa lo statuto morale della vita umana prenatale. Secondo Habermas la vita prepersonale è indisponibile (ovvero non strumentalizzabile e detentrice di piena dignità umana) e “conserva sempre un valore pieno per la totalità di ogni forma-di-vita eticamente costituita”.(p. 38)
Secondo Habermas la diagnosi di preimpianto pone una ipoteca sulle esistenze umane: il nascituro è sottoposto al vaglio, è generato con riserva. La sperimentazione embrionale solleva un problema simile: gli embrioni vengono usati come strumento di ricerca, di conseguenza vengono reificati. In entrambi i casi Habermas rileva una strumentalizzazione e una offesa verso l’esistenza umana, e il rischio di minare “l’autocomprensione dell’uomo come 'essere di genere'” (p. 25), di minacciare la sua identità personale. La manipolazione genetica darebbe origine a un nuovo diritto – che le si impone come argine -, il diritto a un patrimonio genetico non manipolato. I fondamenti biologici della nostra identità personale sono indisponibili e devono essere tutelati giuridicamente. La domanda cruciale cui Habermas intende rispondere è: la trasformazione genetica costituisce un accrescimento dell’autonomia individuale, oppure stravolge la natura umana, rendendo gli uomini diversi tra loro per nascita e valore?

Il primo argomento che Habermas porta a sostegno della difesa della inviolabilità della natura umana (minacciata dalla diagnosi di preimpianto e dalla sperimentazione embrionale, ma anche dalla clonazione, dalla maternità surrogata, dall’assistenza eutanasica) è l’argomento dell’evidenza: la ripugnanza verso le chimere genetiche, gli uomini clonati o gli embrioni usati per esperimenti, sarebbe una prova sufficiente della oscenità di quelle pratiche che violerebbero la dignità umana. In realtà non lo è: innanzi tutto, una intuizione morale può essere ingannevole e non costituire una solida base della valutazione morale. In secondo luogo, se anche fossimo universalmente d’accordo nell’accettare le intuizioni morali come base della morale, ci potrebbe essere una intuizione morale più forte di quella proposta da Habermas: il miglioramento della vita umana, ad esempio.

Il secondo argomento è il richiamo a un diritto alla casualità e alla spontaneità del concepimento. Questo appello al diritto al caso ha un duplice bersaglio critico: da una parte la strumentalizzazione di una vita umana rispetto alle preferenze di terzi (i genitori), dall’altra la violazione della lotteria cromosomica. Il primo aspetto riguarda la ‘sospensione’ di una esistenza umana: rinunciare a impiantare un embrione che non corrisponde a determinati standard di salute implica, secondo Habermas, una strumentalizzazione dell’esistenza umana, che viene decisa e accettata solo a certe condizioni. Tale accettazione condizionata è per Habermas moralmente biasimevole, perché la vita umana è inviolabile e sacra, e la vita prenatale gode pienamente delle caratteristiche di inviolabilità e sacralità. A sostegno di questa posizione Habermas porta una notizia recente riguardo le onoranze funebri nella città di Brema: nei casi di nati morti e di interruzione di gravidanza, i feti non saranno eliminati come rifiuti etici, bensì sepolti in cimitero in fosse comuni, per tributare loro il dovuto rispetto di fronte alla vita morta. Questa notizia testimonierebbe della “diffusa e profonda soggezione da noi provata di fronte all’integrità della vita umana prenatale, vita che nessuna società civilizzata può permettersi di offendere” (p. 38); Habermas considera – in modo piuttosto bizzarro - questa soggezione la prova dell’inviolabilità della vita prenatale. Il secondo aspetto denota un altro genere di argomentazione critica: gli interventi genetici migliorativi violerebbero il diritto di avere un patrimonio genetico determinato dal caso, e non dai desideri o dai gusti dei genitori (designer genetici, per usare l’espressione di Habermas). Il diritto al caso è però un’arma critica piuttosto debole: anche gli interventi genetici terapeutici (dunque di interventi che Haberbas è disposto a considerare moralmente ammissibili) violano il diritto al caso, andando intenzionalmente a correggere anomalie genetiche: la trisomia del cromosoma 21, originata per caso, dovrebbe dunque essere protetta dall’intervento genetico? Habermas non spiega in modo soddisfacente il motivo per cui ritiene immorale sostituirsi alla casualità genetica nel caso degli interventi genetici migliorativi, ma non nel caso degli interventi genetici terapeutici. Il diritto al caso non può essere invocato arbitrariamente: si può istituire accettandone tutte le implicazioni, e dunque anche l’astensione da interventi genetici terapeutici, oppure è necessario ricusarlo.
La soluzione proposta da Habermas è che gli interventi terapeutici traggono la forza da una presupposizione controfattuale di un possibile consenso da parte dell’embrione: questa presupposizione può riferirsi solo alla prevenzione di mali estremi, che senza dubbio sarebbero rifiutati da tutti. Non può invece essere ipotizzato in altre circostanze.

C’è un terzo argomento a sfavore della genetica migliorativa: la necessità di conservare per la natura umana il carattere di crescita spontanea contro la produzione tecnica. Ove ‘produrre’ ha lo spaventoso significato di ‘produrre effetti incontrollabili per lo stesso produttore’. Ogni intervento genetico confonde il confine intuitivo tra ciò che è naturalmente cresciuto e ciò che è tecnicamente prodotto, tra il soggettivo e l’oggettivo. La condanna di Habermas verso ciò che viene prodotto artificialmente si basa sulla convinzione che gli interventi genetici migliorativi compromettano l’autonomia individuale e la possibilità di avere rapporti paritari con le altre persone. Quando un individuo scopre di essere stato geneticamente manipolato, di essere stato tecnicamente prodotto, egli allora non si sente libero di condurre una esistenza autonoma. Habermas si sbarazza troppo facilmente di una formidabile obiezione dei fautori di una genetica liberale. È possibile ricostruire l’argomentazione dei liberali nel modo seguente: dal momento che non è riscontrabile una differenza moralmente rilevante tra modificazione genetica e modificazione pedagogica, e che la pedagogia è accettata (la scuola, i campeggi, le lezioni di danza e di pianoforte), allora anche un intervento genetico migliorativo dovrebbe rientrare in un’area discrezionale dei genitori.
È evidente che la premessa dell’equivalenza tra modificazioni genetiche e modificazioni pedagogiche è costituita dal rifiuto di un ingenuo determinismo genetico, rifiuto che lo stesso Habermas dichiara di condividere. In seguito a queste considerazioni l’argomentazione di Habermas contro la manipolazione genetica migliorativa perde vigore. Anche gli altri argomenti portati da Habermas a sostegno della sua critica sono poco convincenti: un intervento genetico migliorativo sarebbe immorale in quanto, da una parte, determina l’oggettivizzazione della natura, dall’altra viola la libertà del nascituro, di cui è impossibile presupporre il consenso. Un intervento genetico migliorativo lascerebbe ‘muto’ e fissato geneticamente dalle preferenze dei genitori (e da un conseguente piano di vita) l’individuo il cui genoma è stato manipolato. Accettare la genetica migliorativa, secondo Habermas, implicherebbe una rinuncia alla moralizzazione della natura umana, alla gestione della propria vita e in ultima analisi getterebbe le basi per una diseguaglianza tra gli uomini per nascita e valore. L’autonomia e l’eguaglianza tra gli uomini costituiscono i presupposti fondamentali della morale: a essere in pericolo sarebbe dunque la stessa possibilità di una comunità morale.
Habermas non chiarisce però un anello fondamentale nella sua catena argomentativa, ovvero per quale motivo sia possibile presupporre un consenso rispetto a interventi terapeutici, e non rispetto a interventi che possano migliorare le caratteristiche del nascituro (incrementi genetici di bellezza, intelligenza, memoria). Questa carenza argomentativa è tanto più grave perché non sembra ragionevole interpretare questi miglioramenti genetici come un attentato alla futura libertà e autonomia del nascituro (né tantomeno un peggioramento della condizione di vita del nascituro manipolato), così come non costituirebbe una limitazione l’attribuzione genetica di talenti o predisposizioni (talento musicale o sportivo). Se Habermas è disposto ad accettare il rifiuto verso il determinismo genetico, e la possibilità di modificare gli effetti dei processi educativi e di socializzazione, dovrebbe essere disposto a includere nell’elenco delle possibilità moralmente ammissibili anche gli interventi genetici migliorativi. Sostenere che la programmazione genetica sia irreversibile e asimmetrica (di contro alla reversibilità e alla ideale simmetria delle relazioni umane) suscita una domanda: cosa c’è di più irreversibile e asimmetrico del mettere al mondo un figlio naturalmente?

Nel Postscritto Habermas non aggiunge nulla, piuttosto amplia le sue argomentazioni rispondendo ad alcune obiezioni che gli sono state mosse. Vi sono alcune aggiunte che meritano di essere menzionate. Nel rispondere all’osservazione che l’atteggiamento del nascituro verso le predisposizioni genetiche e verso quelle determinate dall’ambiente dovrebbe essere equivalente (accettazione o rifiuto), Habermas sostiene che la decisione di genitori di attrezzare il nascituro di determinati requisiti specificati geneticamente rientra nel dominio delle azioni imputabili. L’individuo programmato geneticamente potrà in futuro rimproverare i genitori di avergli conferito talento matematico invece del talento sportivo, considerandolo preferibile e più utile ai fini della carriera sportiva cui egli aspira. Dunque, conclude Habermas, è più opportuno non accollarsi la responsabilità di distribuire talenti genetici. L’interpretazione delle parole di Habermas sembra essere, paradossalmente, che il motivo di rimprovero da parte dell’immaginario adolescente sia rivolto al non avere ricevuto talento sportivo, piuttosto che all’avere ricevuto la predisposizione alla matematica (predisposizione che può essere ignorata, o comunque rifiutata alla stregua di un corso di teatro scelto dai propri genitori). Ma allora, se si potesse dotare il nascituro (tutti i nascituri, al fine di evitare le loro eventuali proteste) di tutti i talenti, in modo tale che egli (o tutti i nascituri) non potrebbe lamentare l’assenza di una qualche predisposizione genetica, Habermas sarebbe disposto ad ammettere che l’eugenetica non sia immorale?
Per molti è inverosimile che il conferimento di talenti o l’ampliamento di beni primari possa limitare la libertà del nascituro, e suscitare in lui la protesta. Per Habermas l’appello a un relativismo valoriale è sufficiente a fugare ogni dubbio: come possono i genitori sapere ciò che è meglio per il nascituro? Dal momento che non sono in grado di prevedere le circostanze di vita del nascituro e le sue preferenze personali, i genitori non possono dare per scontato che una buona memoria o una brillante intelligenza siano doti oggettivamente benefiche e desiderabili. Addirittura, non possono sapere quando un lieve difetto fisico non finisca per essere un vantaggio per il nascituro. Diventa ancora più problematico, allora, capire i criteri che Habermas usa per distinguere genetica migliorativa e genetica terapeutica, e i motivi per cui quest’ultima sarebbe moralmente ammissibile: a rigore non è possibile neanche sapere quando una malattia possa essere un vantaggio per il nascituro, e allora diventa opinabile (e forse sconsigliabile) intervenire terapeuticamente su una malattia genetica.
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A cura di:
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