Raymond D. Boisvert, John
Dewey. Rethinking Our Time, New York, State University of New York
Press, 1998, pp. 189.
All’epoca in cui Dewey morì, nel 1952, la cultura americana appariva
totalmente colonizzata da quella europea, non molto diversamente da quanto
era accaduto nel secolo precedente. La filosofia di Royce, Peirce, James
e Dewey era stata rapidamente ridotta ad un ruolo marginale dalle
tendenze analitiche, esistenzialiste e neo-positiviste importate dal vecchio
continente. Gli anni Settanta, con la fondazione nel 1973 della Society
for the Advancement of American Philosophy, hanno segnato una svolta
decisiva nel tentativo di recuperare quanto di più originale ha
prodotto la filosofia americana tra la fine del secolo scorso e l’inizio
di questo secolo e di consentire un confronto originale e creativo,
su basi paritarie, con la filosofia europea. L’agile lavoro di Raymond
Boisvert - che da tempo si occupa di studi deweyani (basti ricordare qui
il suo Dewey’s Metaphysics, Fordham University Press, New York 1988)
- si inserisce nell’incredibile revival pragmatista degli
anni Ottanta e Novanta, con l’intento di «fornire una breve e ampiamente
accessibile introduzione alla filosofia di Dewey» (p. 4).
Nella ricostruzione deweyana della filosofia, secondo Boisvert, deve
considerarsi un elemento decisivo la presa di distanza rispetto ad alcune
tendenze presenti nella tradizione filosofica moderna, che vengono qui
efficacemente raggruppate in tre atteggiamenti di fondo: la «tentazione
plotiniana», la «purificazione galileiana» e l’«asomatismo»
(cfr. pp. 5-12). L’idea plotiniana dell’Uno come principio da cui
emana la realtà, al quale tornare fuggendo il caotico mondo fenomenico,
è la trama di tante narrazioni filosofiche moderne: dal cogito cartesiano
alle sensazioni pure di Locke. Una trama che Dewey rifiuta in nome di una
realtà molteplice in cui l’ordine può esprimersi come armonia,
ma mai come unità. Non meno presente tra i temi ricorrenti di tanta
filosofia occidentale - fino alla costruzione dell’original position
di John Rawls - è la rimozione dell’esperienza ordinaria e la sua
sostituzione con un contesto purificato da eventuali elementi di disturbo.
Una simile procedura di semplificazione del contesto di indagine, introdotta
dalla scienza galileiana, ha consentito alle scienze naturali di ottenere
conquiste qualificanti, mai disconosciute dal pragmatismo. L’errore di
molti pensatori moderni è stato, tuttavia, secondo Dewey, aver trasposto
l’efficacia di questo metodo oltre i confini della scienza, nell’ambito
della riflessione filosofica, allontanando così di fatto la filosofia
dai problemi degli uomini. Per recuperare il ruolo che unicamente le compete,
che nell’interpretazione deweyana è un ruolo di critica sociale
o di «critica dei pregiudizi», il lavoro filosofico non può
non cominciare in medias res, da quel contesto dell’esperienza ordinaria,
al quale deve poi ritornare «se la filosofia vuole avere una qualche
influenza positiva sul raggiungimento di una vita buona» (p. 9).
Subordinando la complessità dell’esperire umano a quell’unica forma
di conoscenza che deriva dalla scienza, invece, i filosofi hanno commesso
una «fallacia intellettualistica» (fallacy of intellectualism),
che li ha portati ad eliminare dal reale quei tratti (la lotta, l’incertezza,
il conflitto, il mutamento, l’illusione) che soli possono dare origine
alla riflessione filosofica e dare senso alle conclusioni che essa raggiunge.
Si inserisce nella necessità, così efficacemente affermata
dal pragmatismo, di recuperare l’esperienza di senso comune, il contatto
con il mondo della vita (life-world), anche la critica deweyana
all’idea moderna di un soggetto disincarnato, che accede alle conquiste
della ragione grazie alla separazione della mente dal corpo, alla compartimentalizzazione
dell’esperienza mentale e spirituale rispetto a quella fisica. Per
Dewey, scrive Boisvert, «la conoscenza non deriva da una qualche
ragione asomatica ma da una “intelligenza” incarnata. La vita buona
non può consistere in un rinnegamento e in una fuga dal corpo,
compiuti in nome di una purificazione interiore» (p. 10).
La scoperta dell’irriducibile pluralismo del reale e dell’infinita
ricchezza del senso comune insieme alla rivalutazione di un’intelligenza
incarnata costituiscono tre linee fondamentali della ricostruzione deweyana
della filosofia, la cui portata si estende, come sottolinea Boisvert, alla
teoria della conoscenza, alle riflessioni di Dewey sul ruolo dell’arte
e del sentimento religioso fino ad influire in modo determinante nell’ambito
della teoria pedagogica e politica, temi che l’opera passa sistematicamente
in rassegna nell’arco degli otto capitoli in cui essa si articola.
Particolarmente interessante, è l’influenza che questa meditazione
sugli errori della filosofia moderna e la presa di distanza rispetto ad
essi ha nella ricostruzione deweyana della democrazia e degli ideali di
libertà ed eguaglianza, su cui Boisvert si sofferma nel capitolo
terzo. Il pensiero democratico di Dewey viene presentato qui come alternativo
tanto all’ideale comunitario espresso da John Winthrop in un famoso sermone
pronunciato nel viaggio dell’Arbella verso il Nuovo mondo, in cui i futuri
coloni americani venivano esortati al sacrificio individuale in nome del
bene comune, quanto alla visione liberale lockiana. L’alternativa proposta
da Dewey - oggi da rivalutare, secondo molti, nello scontro tra communitarians
e liberali - consisteva nel tentativo di colmare le distanze tra
queste due concezioni filosofico-politiche, mostrando la loro non
necessaria e inevitabile incompatibilità alla luce di una ridefinizione
dei concetti di individualismo, libertà ed eguaglianza.
La Plotinian Temptation e la Galilean Purification si
sono tradotte, secondo Dewey, in termini filosofico-politici nella
visione atomistica propria del liberalismo classico, contrattualista, la
cui impostazione è considerata responsabile di una visione che riduttivisticamente
contrappone individuo e società ed approda ad una accezione negativa
della libertà, come semplice non impedimento. Il recupero del contestualismo,
operato dal naturalismo deweyano, consente, invece, la comprensione del
carattere temporalmente condizionato di ogni situazione e dell’interrelazione
sempre sussistente tra gli elementi di cui essa si compone. «Il naturalismo
empirico, con l’enfasi che esso pone sul dato della concretezza, permette»
- scrive Boisvert - «il riconoscimento di una verità più
profonda: le società sono composte di individui in interazione»
(p. 54). Da ciò consegue che i principi democratici possono trovare
realizzazione soltanto in un contesto di vita associata, animata da un’intensa
esperienza comunicativa. La socialità non è, quindi, necessariamente
un elemento di esclusiva limitazione della realtà individuale. Se
aperta, cooperativa, partecipativa e comunicativa, la vita associativa
è per Dewey elemento indispensabile per lo sviluppo dell’individualità
e coincide in quanto tale con la democrazia, come «way of life»,
«a way of living together characterize by conjoint communicative
esperience» (p. 57).
La concezione relazionale del sé comporta, d’altra parte, un
ripensamento delle nozioni di libertà e eguaglianza: la libertà
non è un possesso innato, atemporale, ma coincide con un processo
di liberazione (liberti-fication), con un passaggio dalla libertà
come assenza di costrizione alla libertà intesa quale “capacità
di”; l’eguaglianza a sua volta non è un dato di partenza, ma anch’essa
un processo. «L’eguaglianza democratica ... richiede la ricerca,
l’individuazione e l’apprezzamento dei diversi contributi di ogni persona»
(p.70). In questo senso la democrazia può essere considerata da
Dewey come «aristocracy carried to its limit» (cit. a p. 70).
Come, e più, dell’ideale aristocratico essa deve tendere,
infatti, alla valorizzazione delle differenze: «moral equality»
- scrive Dewey -«means incommensurability, the inapplicability of
common and quantitative standards» (cit. a p. 68).
Non sarebbe conforme allo spirito pragmatista riproporre oggi il pensiero
deweyano tout court quale soluzione dei problemi del nostro tempo.
La filosofia di Dewey sembra, invece, - a parere di Boisvert - ancora capace
di offrire un fertile terreno di partenza per dare inizio ad una nuova
reconstruction in philosophy, che - in questo fedele alla lezione
deweyana - sia capace di confrontarsi con il passato in termini «multitemporali»,
piuttosto che secondo le distinzioni, care a molti intellettuali contemporanei,
tra pre-moderno, moderno e post-moderno (cfr. p. 157-158).
Brunella Casalini
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