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Ultimo aggiornamento 1 agosto 2002
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Luc Boltanski, Lo spettacolo del dolore. Morale umanitaria, media e politica, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2000, pp. 319.
L'edizione italiana di La souffrance à distance di Luc Boltanski esce a sette anni di distanza dalla prima pubblicazione francese: un ritardo "colpevole", vista la rilevanza dei temi ivi trattati. Se in alcune pagine l'argomentazione risulta oggi talvolta già datata e superata da nuovi contributi, il libro ha un merito indubbio: quello di discutere la questione umanitaria sia dal punto di vista filosofico-antropologico e sia da quello sociologico-politico, talora mantenendo distinte queste due prospettive e talora intrecciandole. Questo fa sì che l'ingannevole semplicità dell'esposizione spesso nasconda ricostruzioni teoriche piuttosto complesse e nel contempo suggestive. Il lavoro si compone di tre parti. La prima, intitolata Il problema dello spettatore, entra subito in medias res, presentandoci i propositi dell'autore e la sua posizione: Boltanski suggerisce una chiave di lettura della questione umanitaria come presenza ineliminabile del dibattito pubblico attuale e propone il recupero della politica della pietà come strada di possibile risposta alle sue sfide inedite. La politica della pietà non è di per sé un fatto nuovo: essa è nata dentro la modernità. E' nata allorché la modernità, con la sua pretesa di autoaffermazione e di secolarizzazione dei fondamenti del mondo, ha tentato per la prima volta di comprendere il problema del male e di farsene carico. Se la politica della pietà ha almeno duecento anni di storia, essa ha assunto oggi tratti inediti. Il carattere di novità che presenta nel nostro tempo risiede in una condizione umana nuova, caratterizzata dai processi di globalizzazione, e dallo scarto che nel rapporto tra pietà e politica si viene a determinare a causa dell'aumento della distanza tra spettatore e infelice, per effetto della comunicazione di immagini e informazioni attraverso i media. La tensione tipicamente moderna tra "universalismo astratto" e "comunitarismo stretto" risulta acuita, nel momento in cui l'essere a conoscenza di una sofferenza a una distanza fuori dalla portata del nostro diretto intervento fa scattare una contraddizione insostenibile tra l'apparato morale e la sua applicabilità in contesti lontani e diversi. La seconda parte ci guida in un viaggio affascinante attraverso due secoli di storia della filosofia, che ripercorre le tre "topiche" in cui si è espressa la politica della pietà, intendendo per topica appunto la figura retorica di un'argomentazione letteraria: si tratta della topica della denuncia, il cui punto di partenza può essere rintracciato in Rousseau; della topica del sentimento, tipica del romanzo tra Sette e Ottocento; e infine della topica estetica, che trova esponenti in Nietzsche, Sade e Baudelaire. La terza parte affronta in modo diretto la crisi della pietà, che la distanza produce ma al tempo stesso rende necessaria, e ci propone una via realistica di impegno per il cittadino comune alle prese con il dilemma dell'azione adeguata al proprio orientamento di valore. Nel complesso, quindi, il problema che Boltanski si pone riguarda la legittimità di una nuova politica della pietà nell'età contemporanea, contrassegnata da un eccesso di informazione e dalla conoscenza generalizzata delle sofferenze. Questa ricerca di legittimità è rivolta, alla fine, al fondamento della questione umanitaria che è tornata a ispirare il senso morale, una certa politica e una certa idea del diritto, come la vasta diffusione di movimenti umanitari sta a dimostrare. Ma proprio per capire il senso dell'intera argomentazione, ci sarebbe subito da chiedere all'autore se ritiene che solo una politica della pietà sia adeguata a rispondere alla questione umanitaria divenuta così impellente. Nel corso di una trattazione, che si muove sempre sul doppio binario della costruzione e della critica, l'autore sembra in effetti lasciare spazio a diverse possibili interpretazioni. La prospettiva di fondo è aperta su una distanza problematica sia rispetto alla conoscenza di una situazione sia, e soprattutto, rispetto alla capacità di azione. Si ha politica solo con la distanza, perché è soltanto nello spazio tra l'osservazione dell'evento, la predisposizione di una strategia e il momento dell'intervento che si può parlare di un'azione politica, cioè pubblica e possibilmente plurale. Ma con la pietà ci troviamo di fronte a quello che Boltanski chiama "trattamento paradossale della distanza", ovvero la necessità di trasportare casi singoli, tali da suscitare pietà, su un piano di generalità tipico dell'azione politica. Come suggerisce lo stesso autore - è proprio la modalità con cui questo problema viene affrontata a produrre la necessità di una ridefinizione e di una visione nuova rispetto alla politica, una visione che presenta tratti interessanti, ma anche alcuni spunti di dibattito critico. La prima questione che merita di essere discussa è di carattere teorico e riguarda il posto che ricoprirebbe una politica della pietà. Boltanski riprende la definizione di politica della pietà che Hannah Arendt propone nel saggio On Revolution. Sappiamo che la Arendt ne parla a proposito delle rivoluzioni dominate dalla questione sociale (francese e russa), contrapposte alla rivoluzione americana, ispirata invece al valore della libertà. Non è tanto questo l'aspetto (peraltro discutibile e direttamente legato alla sua teoria dell'azione) che interessa discutere qui, quanto piuttosto lo spazio che proprio la Arendt attribuisce alla pietà rispetto alla compassione da un lato e alla solidarietà dall'altro. La compassione è la passione che ci colpisce al contatto con le sofferenze di qualcun altro: essa nasce di fronte ad un caso particolare cui si risponde immediatamente, senza alcuna qualificazione dell'infelice al quale viene prestato soccorso. L'esempio illuminante della manifestazione della compassione ci è fornito dalla parabola del buon samaritano (pp. 10-13), dove risulta evidente la duplice possibilità di reazione davanti ad uno spettacolo di sofferenza: la fuga o l'assistenza, senza un intermezzo di riflessione né di comunicazione. La pietà è il sentimento della passione, cui si accede quando si è dispiaciuti senza essere colpiti direttamente: essa presuppone, quindi, una distanza nel posto dell'osservatore, distanza che consente una riflessione di carattere generale. In alternativa alla pietà, però, la Arendt attribuisce alla solidarietà la capacità di stabilire una comunità di interessi con gli oppressi e gli sfruttati, presentandola come principio ispiratore dell'azione politica, in quanto partecipa della ragione e quindi può operare una generalizzazione, comprendere una moltitudine e non una sola classe, o nazione o popolo. La differenza tra pietà e solidarietà per la Arendt sta in questo: la pietà non guarda con occhio uguale fortuna e sfortuna, e per esistere ha bisogno della presenza degli infelici, che ne sono la causa. Invece la solidarietà, pur se mossa dalla sofferenza, comprende tutti ed è fondamentalmente egualitaria. Boltanski non fa cenno alla dimensione della solidarietà, perché assume la separazione tra felici e infelici quale condizione fondamentale dello spettacolo globale della sofferenza; e su questa condizione fa poggiare la differenza tra una politica della pietà e una politica della giustizia. La differenza tra politica della pietà e politica della giustizia è uno dei temi centrali, se non quello centrale, del volume; un tema che oscilla tra due diverse interpretazioni della differenza: come contrapposizione e come differenza di piani, possibilmente complementari tra loro. Boltanski offre più esempi di cosa deve intendersi per politica della giustizia. Ne parla a proposito del modello della città, in cui i giudici lavorano per ristabilire la concordia tra i cittadini secondo una teoria della giustizia che si fondi su un senso comune di giustizia (pp. 6-7). Vi accenna in relazione al tema della "metafisica della giustizia" (pp. 107-108), con riferimento alla costruzione della volontà generale di Rousseau, come convenzione di oggettività, che permette di creare equivalenza tra individui e quindi di superare controversie se (e solo se) ci si riferisce ad un secondo livello generale, che è esterno alle singole persone, e in cui il giudizio comune non è sottoposto all'osservazione, ma è dato. Si riferisce poi alla distinzione tra giustizia e benevolenza (pp. 72-73), ripresa da Adam Smith, secondo il quale la giustizia è l'arte dell'azione che si compie anche con la forza pur di risolvere una controversia, mentre la benevolenza attiene al novero delle azioni volontarie capaci di suscitare simpatia nello spettatore e meritare perciò ricompensa. Un'ulteriore definizione della politica della giustizia si può individuare infine nell'accenno relativo all'ordine temporale dell'azione politica, quando in chiusura del libro si parla di forme politiche orientate al passato che sulla base della memoria delle sofferenze delle vittime legittimerebbero la rivendicazione di identità da parte di popoli, classi, stati. Mi pare che la critica fondamentale di Boltanski alla politica della giustizia stia nella sua incapacità di dare una risposta alla tensione tra universalismo astratto e comunitarismo stretto, e alla tensione conseguente tra esigenze tecnico-politiche e esigenze emotive e morali. Essa pende verso l'universalismo astratto, come estensione però di una logica comunitaria che interviene ex post, a ripristino di una condizione di giustizia che deve fare riferimento ad un determinato schema e ad un modello particolare. Ed è per questo che risulta inefficace per una sofferenza a distanza, la quale, in età di globalizzazione, non si lascia domare da un unico e unificante senso di giustizia. La politica della pietà, invece, parte non da equivalenze, ma da una separazione; non aspira solo all'oggettività e all'imparzialità, ma anche al coinvolgimento emotivo dello spettatore, senza il quale non ci sarebbe azione (la formula distacco e impegno); non ha l'occhio rivolto al passato, bensì al presente, la dimensione temporale in cui prevale l'azione come unico criterio possibile di risposta alla realtà. In questo senso, il criterio dell'azione è opposto a quello della giustizia. La ripresa del tema della pietà appare così in ultima analisi giocata contro la Arendt, o meglio in direzione di una riformulazione delle categorie arendtiane. La Arendt colloca la pietà in uno spazio assai vicino alla passione, e non alla ragione; da qui tutta la parte che la Arendt dedica alla forma di crudeltà in cui si esprime spesso la pietà: il racconto di Billy Bud in Melville ne è un esempio, ma ancora di più lo è il linguaggio e l'opera di Robespierre, che aprono poi al Terrore. La Arendt cita un passo delle dichiarazioni alla Convenzione: "per pietà, per l'amore dell'umanità, siate inumani!". La politica della pietà è, quindi, nel lessico arendtiano, un ossimoro, perché alla generalizzazione delle condizioni di sofferenza non si accompagna una sufficiente razionalizzazione e quindi quella capacità di agire in una sfera pubblica che è propria della politica. Boltanski, invece, ricomprende nel suo concetto di pietà la razionalità che sottende alla sfera politica, nella forma della oggettivazione della distanza. Questa intersezione tra pietà e solidarietà finisce anche per attenuare la differenza tra pietà e giustizia, nella misura in cui tale oggettivazione diventa il terreno di comunicazione e di mobilitazione collettiva, esigendo in tal modo almeno una equivalenza nel giudizio degli spettatori. Resta, come differenza sostanziale, il presupposto della separazione tra felici e infelici. La possibilità di costruire un'aggregazione politica solo tra spettatori, come comunità fondata dalla possibilità della comunicazione, ha come conseguenza il carattere unilaterale dell'azione umanitaria verso gli infelici, che restano passivi sulla scena pubblica. Questa configurazione bipolare dell'umanità introduce, a mio avviso, un problema etico di non poca rilevanza, perché fa venir meno ogni dimensione di reciprocità nella relazione morale e fa cadere la possibilità, che in età globale sembrava divenuta reale, di considerarsi ciascuno di noi parte del genere umano, di un "Noi" globale. Boltanski si accorge delle conseguenze radicali della sua impostazione, e cerca di ovviare a questa obiezione facendo appello alla Teoria dei sentimenti morali di Adam Smith. Sulla scorta del rapporto tra morale e legame sociale, Boltanski ricorre alla doppia figura dello spettatore comune (locale) e dello spettatore ideale (riflessivo), che esprime la necessità di tener conto anche delle proprie impressioni nel racconto di una sofferenza, per evitare la mera descrizione di realtà, cinica e moralmente inaccettabile. Il ricorso allo spettatore puro serve a Boltanski per dare effettivo seguito ad una sua duplice esigenza: da un lato che il soggetto spettatore possa farsi oggetto egli stesso di riflessione nella comunicazione ad altri, assimilandosi in quanto oggetto alla condizione dell'infelice; dall'altro che egli possa assumere consapevolezza di un obbligo di agire che non nasce solo da un mera reazione allo spettacolo del dolore, ma anche quale risposta dettata dalla propria coscienza morale. Boltanski non riesce però a rispondere pienamente a quella che lui stesso definisce "esigenza di simmetrizzazione", ovvero il bisogno di fare riferimento a regole comuni di umanità. Sulla base di un meccanismo di coinvolgimento emotivo che si alimenta, in senso smithiano, del desiderio dell'approvazione altrui e del piacere suscitato dalla benevolenza arrecata, Boltanski costruisce una comunità di spettatori separata da quella degli infelici; una comunità che non sembra sfuggire all'accusa che la Arendt muoveva alla politica della pietà: ovvero quella di nutrirsi e di glorificarsi della sofferenza. La politica della giustizia, con il suo gioco di equivalenze, con la figura del "mettersi al posto di colui che soffre" (altrimenti detto, secondo una ripresa kantiana, pensiero rappresentativo), non subisce questo attacco, proprio perché la sua tensione egualitaria spinge in teoria al suo stesso superamento. La seconda questione che tocca temi di grande interesse riguarda la natura della morale umanitaria. La politica della pietà è rivolta alla gente comune, cioè a persone non sottoposte a forme di obbligo (contrattuale o naturale, come il caso del medico e quello del genitore), bensì del tutto svincolate da legami con le vittime: c'è una distanza non solo geografica, ma anche politica e culturale da tener presente. Il presupposto etico è però il seguente: la conoscenza di una situazione di sofferenza implica, crea una responsabilità, e quindi un obbligo ad agire. Occorre indagare questa particolare accezione di responsabilità che Boltanski vuol derivare dallo spettacolo della sofferenza a distanza, sotto la rubrica dell'obbligo di assistenza e della responsabilità per omissione. Il meccanismo è assai complesso, e comprende, per tappe: in primo luogo, la formazione dello spazio pubblico attorno alle cause avanzate dallo spettacolo della sofferenza; in secondo luogo, l'impegno puramente morale e libero da interessi comunitari; in terzo luogo, e soprattutto, prevede la rete come forma di aggregazione derivata da informazione comune. Questa figura è interessante, perché consiste nel fondare responsabilità sul riconoscimento di una comune conoscenza di situazioni, e quindi sulla formazione di una collettività informata. Lo spettacolo della sofferenza a distanza ha un senso se dà vita a responsabilità collettive, che sole possono determinare un impegno adeguato all'azione. Questo movimento di costruzione di una collettività responsabile arricchisce un panorama in cui sembra prevalere l'idea della responsabilità individuale, come portato della teoria dei diritti e in ultima istanza della giustizia. La responsabilità individuale rischia di rivelarsi impotente di fronte alla sfida della distanza in età globale e può quindi cadere nella rimozione/indifferenza, oppure nel ripiegamento di una critica rivolta ad una impersonale trascendenza: nel caso della fame nel mondo, per esempio, il riconoscermi responsabile, come abitante dell'Occidente, del sottosviluppo del Sud non indica di per sé l'opzione trasformatrice, anzi può acquietarsi in una riflessione ideologica che allontana dall'azione. C'è poi un altro aspetto di questa morale umanitaria che riguarda la sua natura composita di etica del sentimento da una parte ed etica deontologica dall'altra, nella figura dello spettatore morale. Boltanski è sostenitore della teoria del rapporto tra processi cognitivi e stati emozionali; il problema è quindi come rendere questo nesso, che fonda una pietà orientata all'azione politica, universalizzabile, per dirla in termini kantiani. Com'è possibile passare all'azione collettiva, se l'emozione è un'esperienza tipicamente individuale? Questo mi pare un punto centrale, e la proposta di Boltanski si richiama ancora a Smith, come filosofo che si è impegnato nell'operazione di tessitura di un legame sociale sulla base di un interazionismo tra l'infelice, lo spettatore, un terzo che agisce direttamente (benefattore o carnefice), e un secondo spettatore cui comunicare tale esperienza. Ma la sintesi di un collettivo, sostiene Boltanski, non può essere solo una catena di trasmettitori che ripetono la stessa relazione diadica, bensì deve essere il terreno di convergenza di tutti gli spettatori possibili: entra qui in gioco la facoltà dell'immaginazione, come funzione di coordinamento di immagini e sensazioni comunicabili universalmente perché anticipate dalla capacità di comune sentire. Questo impianto di tipo antropologico funziona però se, e solo se, l'immaginazione viene nutrita da fonti comuni (quali pamphlet, romanzi, fiction) che generano comuni sensibilità. Cosa accade quando la fonte comune che dovrebbe generare un idem sentire usa lo stesso mezzo per trasmettere finzione e realtà, qual è il caso dei media? Il problema diviene notevolmente complesso. Boltanski fa una disamina molto severa della critica decostruzionista dei media, che vede nell'equiparazione tra finzione e realtà un prodotto inevitabile della società dello spettacolo. Per rendere ragione della figura dello "spettatore critico", Boltanski è costretto ad inserire una riflessione sociologica sull'impatto dei media sull'opinione pubblica. Sarebbe stato interessante, tuttavia, sviluppare anche un'analisi di tipo antropologico sulle possibilità da parte dell'individuo di riuscire a reagire con emozione reale, o emozione fittizia, adeguata all'effettivo contenuto dell'informazione. Se cronaca e fiction sono presentate con lo stesso mezzo e con le stesse modalità, infatti, com'è possibile attivare il giusto apparato emotivo? D'altronde se l'immaginazione, che abbiamo visto essere la facoltà coordinatrice di stati emotivi, è alimentata dai media, come può essere essa stessa in grado di giudicare? All'altezza dell'età contemporanea, questo meccanismo è più complicato di quello che potevano ricostruire Adam Smith o il Kant della Critica del Giudizio, per il quale il giudizio del bello costituiva un problema. L'emozione mediatica (p. 241) - dice Boltanski - è instabile tra emozione reale ed emozione fittizia. Ma se per avvicinare l'emozione mediatica a quella reale occorre mantenere l'orientamento all'azione, questo appello rischia di rimanere una petitio principii se non si accompagna ad altre dimensioni valoriali, ad un forte fondamento normativo. La terza questione che vorrei proporre alla riflessione concerne la natura dell'azione politica. Il saggio di Boltanski poggia sul presupposto (di derivazione arendtiana) per cui parlare significa agire all'interno di uno spazio pubblico, che deve tenere ferma la separazione tra la rappresentazione (il mondo che ci viene fornito dall'informazione e dai media) e l'azione. Questo principio solleva un'obiezione immediata: se la parola è azione, allora la stessa rappresentazione dei media, ad opera di giornalisti e di reporter è azione. Ma, se è così, ciò costituisce un motivo in più non solo per non sottrarre i media alla critica dello spettatore, ma anche per chiederci se non vi sia il rischio che essi esauriscano in loro stessi lo spazio di intervento umanitario espresso attraverso la parola. In effetti, nel complesso del lavoro non risulta chiaro il rapporto tra l'azione verbale, dello spettatore, e l'azione diretta, del movimento umanitario: in sostanza, il rapporto tra ciò che è politico e ciò che è umanitario. Nel capitolo finale, che prende in esame il lavoro delle organizzazioni non governative e dei movimenti umanitari, la relazione tra politico e umanitario appare di tipo metonimico: l'umanitario, infatti, non si presenta solo come parte, ma occupa l'intero spazio del presente, e, quindi - dice Boltanski, con un'affermazione forte e apodittica - della realtà. La parte, il movimento umanitario, agisce infatti direttamente, stabilendo una relazione con lo spettatore a distanza di tipo solo giustificatorio, la cui unica azione è la parola. Il ruolo di chi agisce parlando sembra ridursi alla legittimazione di una richiesta di fondazione del diritto all'ingerenza umanitaria, i cui soggetti non sono peraltro specificati: i governi? Le sole ONG ? Oppure altri organismi internazionali? Forse, proprio da questo appiattimento sul presente, che rappresenta il limite temporale della politica della pietà, può scaturire una riflessione più ampia da parte degli spettatori a distanza; una riflessione che non solo nutra la speranza di mutamenti futuri, ma che apra anche alla parola mirante all'azione una nuova prospettiva adeguata in termini di giustizia e di solidarietà. * Mi riferisco a tutta la letteratura sulla globalizzazione che si è occupata del problema dello spettatore; tra tutti, Bauman, Globalization. The Human Consequences, Polity Press-Blackwell, Cambridge-Oxford 1998, trad.it. Dentro la globalizzazione, Laterza, Roma-Bari 1999. Sul diritto umanitario e l'obbligo di assistenza si veda invece J. Rawls, The Law of Peoples, Harvard University Press, Harvard 1999, trad. it. Il diritto dei popoli, Edizioni di Comunità, Torino 2001. |
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