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Ultimo aggiornamento 26 novembre 2001 |
Alberto Pirni, Il "regno dei fini" in Kant. Morale, religione, politica in collegamento sistematico, Genova, il melangolo, 2000
Secondo una vulgata persistente, diffusa soprattutto nel mondo anglosassone, la filosofia politica kantiana può esaurientemente ridursi ad una forma di liberalismo, fondato su una metafisica razionalistica dell'individuo. Questa prospettiva, che tende a trascurare le componenti democratiche e comunitarie del pensiero di Kant, non è un orientamento soltanto filologico, ma presuppone una filosofia politica molto chiara: non è possibile una terza via fra liberalismo, da una parte, e totalitarismo, comunismo e democrazia "totalitaria" dall'altra, di modo che ogni critica al liberalismo ricade di necessità in questo secondo corno del dilemma così costruito. In un simile quadro, il libro di Alberto Pirni ha il merito di offrire una analisi testuale accurata e approfondita al sostegno di una tesi interpretativa differente: Kant non concepisce l'uomo soltanto come essere pensante che in solitudine considera il cielo stellato sopra di lui e la legge morale in lui, bensì entro un dimensione comunitaria, fra gli altri uomini, costitutiva dell'essere ragionevole (p. 17). Questa dimensione, tuttavia, non si identifica con delle forme storiche di comunità, bensì col mondo intelligibile la connessione fra esseri ragionevoli che si stabilisce tramite la legge morale. Il problema della ragione è tutt'uno col problema della sua propagazione entro un dimensione intersoggettiva, di connessione sistematica. Il concetto di regno dei fini si ritrova nella Fondazione della metafisica dei costumi (1785): "agisci secondo massime di un membro universalmente legislatore in vista di un regno dei fini semplicemente possibile" (GMS, IV 439). Esso emerge alla conclusione di un percorso complesso, che comincia caratterizzando le ragioni dell'azione morale come universali, e procede determinandole come poste da un soggetto autonomo, il quale considera se stesso, e al pari ogni altro essere ragionevole, a un tempo legislatore e suddito della legge morale. Il regno dei fini si realizzerebbe se le massime conformi all'imperativo categorico fossero seguite universalmente. E dal momento che l'imperativo categorico prescrive la coerenza, ne deriverebbe un coordinamento di tutti i fini possibili in una totalità sistematica. Perché, chiede Pirni, Kant non si è fermato all'autonomia e ha posto il soggetto morale come ideale cittadino di una comunità etica? La sua risposta è la seguente: perché la finitezza di alcuni esseri razionali non renda l'imperativo impraticabile, occorre considerarli, proprio in quanto soggetti morali, nel loro rapporto con altri soggetti. Quello che non possono fare da soli, lo possono fare insieme. (pp. 21-35) Il regno dei fini, la cui idea è giunta a Kant tramite i precedenti della città di Dio agostiniana, il regno della grazia leibniziano e la repubblica di Rousseau, viene definito nella Fondazione della metafisica dei costumi come collegamento sistematico di diversi esseri ragionevoli mediante leggi comuni. Poiché le leggi determinano i fini per la loro validità universale, se si astrae dalle differenze personali degli esseri ragionevoli e dall'intero contenuto dei loro fini privati, si può concepire una totalità dei fini (i fini in sé e tutti i loro) in sistematica connessione (GMS, IV 433). Kant, osserva l'autore, aveva già parlato di connessione sistematica nella Critica della ragion pura, e precisamente nel capitolo della Dottrina del metodo dedicato alla Architettonica della ragion pura: le nostre conoscenze non possono essere rapsodiche, ma devono formare un sistema. Tale sistema, a sua volta, non può essere inteso come una generalità delle conoscenze, che cresce per semplice aggiunta esteriore, ma come una totalità che si accresce dell'interno, al modo di un organismo, e in cui il senso delle parti è dato solo dal rapporto col tutto. (B 860-861 A 832-833) Questo tipo di connessione non può essere applicato al regno dei fini, perché questo è composto da esseri ragionevoli la cui intelligibilità non dipende dalla relazione in cui essi sono posti dall'esterno: l'essere parte di un tutto, in questo caso, deve passare attraverso loro stessi e la loro autonomia. In quanto essi partecipano, come legislatori e come sudditi, alla legge morale, è possibili vederli nella connessione sistematica pratica e non teoretica del regno dei fini. I loro fini privati vengono loro restituiti solo se compatibili con la legge morale. Alla luce della seconda parte della Fondazione della matafisica dei costumi, il regno dei fini va pensato come un ideale, fondato su un'idea: l'idea nel senso kantiano di concetto della ragione è indeterminato; l'ideale, come idea in individuo, anche se non in concreto, è, di contro, l'idea come cosa particolare, pensata nella sua realizzazione adeguata, ma in quanto determinabile secondo regole a priori. (pp. 37-59) Il regno dei fini deve dunque essere pensato come l'archetipo della comunità morale archetipo che è implicito nello stesso imperativo categorico, e che dovrebbe scagionare Kant delle accuse hegeliane di individualismo e di formalismo. E' illuminante, a questo proposito, il quarto esempio con cui Kant, nella seconda parte della Fondazione della metafisica dei costumi, illustra l'imperativo categorico: quello di chi, indifferente alle sorti degli altri, si rifiuta di aiutarli, pur rispettandone la libertà. Kant osserva che è possibile pensare coerentemente - ed anche lasciar esistere - un mondo in cui ciascuno si curi solo della propria felicità; ma una volontà che istituisse questo principio cadrebbe in contraddizione con se stessa, perché priverebbe il soggetto agente della possibilità di essere aiutato nel bisogno e questo non può essere razionalmente voluto. Se la ragion pratica kantiana fosse intesa individualisticamente, questo sarebbe niente più di un calcolo di utilità fondato sull'aspettativa di un contraccambio, e non potrebbe ambire a universalità: ma quando il soggetto morale legifera, non si pone semplicemente dal suo punto di vista, bensì da quello di chi crea un regno secondo leggi che valgono per una pluralità di creature. La scelta, in questa prospettiva, è quella fra un mondo di carità universale e un mondo perfettamente senza carità: la ragione, quando legifera moralmente, nella forma dell'universalità, lo può fare solo presupponendosi responsabile del mondo e di tutti i suoi cittadini solo avendo già preliminarmente scelto la prospettiva della carità. Stando così le cose, sostiene Pirni, il dualismo kantiano, da cui segue uno iato fra essere e dover essere, non è tanto quello fra forma e contenuto, fra regola ed esperienza perché la nostra esperienza è strutturata da regole quanto fra regola pratica e sua realizzazione. Per questo il regno dei fini rimane l'archetipo della comunità, perennemente distinto della comunità storiche le quali dunque non possono pretendere di esaurire in sé la moralità. (pp. 61-80) Al regno dei fini appartengono, come membri, gli esseri razionali finiti, che sono nello stesso tempo legislatori e sudditi, e Dio, come capo (Oberhaupt), se, come legislatore, la sua volontà non è soggetta a quella di nessun altro. Kant precisa, nelle Lezioni di etica, che solo in una situazione di dispotismo le leggi hanno un autore: il legislatore non inventa la leggi, ma la scopre come praticamente necessarie e le dichiara come conformi al suo volere. Nel regno dei fini è compreso anche il mondo dei bisogni e degli scambi in base aun prezzo, che sono accettabili nella misura in cui non sono prevalenti o esclusivi; ma Dio, che è privo di bisogni, si trova a deliberare sulla legge in una situazione di ideale purezza e disinteresse. La sua volontà è dunque santa, perché in lui il dovere si identifica col volere, dal momento che non ha fini materiali da contemperare con quelli degli altri. La sua presenza in questo regno, come legislatore perfettamente indipendente, offre un ulteriore criterio di moralità: è morale la legge che anche Dio, in una ideale assemblea parlamentare, non avrebbe difficoltà ad approvare. Egli, inoltre, in quanto a capo anche del regno della natura, rende praticamente pensabile la convergenza escatologica fra questo e il regno dei fini ma solo dal punto di vista aperto dalla speranza dell'agente moralmente impegnato. Il leibniziano Reich der Gnade prevede che tutti gli spiriti entrino, in virtù della ragione e delle verità eterne, in una società con Dio, retta monarchicamente, la cui realizzazione è garantita dall'armonia prestabilita fra natura e grazia, perché il ruolo di architetto della natura e quello di monarca morale coincidono nella persona di Dio. Questo comporta che l'etica di Leibniz sia teonoma, monarchica e ontologicamente garantita, mentre quella di Kant è autonoma, comunitaria e fondata solo sulla libertà. (pp. 81-98) Il concetto di regno dei fini sorge in ambito morale: ma la sua caratterizzazione comunitaria, per la quale la morale non si risolve nella buona coscienza, ma nell'agire conforme a regole universalizzabili, mostra che in Kant la morale ha una prospettiva immediatamente politica e conduce a una filosofia della storia. Agire moralmente significa contribuire a trasformare il mondo secondo le leggi riconoscibili dalla comunità degli esseri razionali. Etica e diritto si distinguono per la motivazione soggettiva con cui le azioni vengono compiute cioè per la presenza o dell'intenzione di seguire il dovere indipendentemente dalla coercizione ma le loro leggi sono imposte ugualmente dal medesimo imperativo categorico e dalla medesima ragione. Per quanto la costituzione da lui proposta differisca da quella di Platone, Kant si richiama all'ideale platonico della Repubblica sia nella Dissertatio del 1770, sia nella sezione della Dialettica trascendentale della prima Critica intitolata Delle idee in generale, sia nella seconda sezione del Conflitto delle facoltà. E questo richiamo prova quanto Kant sia lontano dalla separazione liberale fra morale e politica. A prova di questo militano rileva Pirni due importanti circostanze:
Il testo di Pirni, cui una recensione non può rendere certo giustizia, è un lavoro che merita veramente di essere letto perché coglie la complessità del pensiero di Kant su un tema troppo spesso semplificato dal dibattito filosofico-politico contemporaneo. La sua analisi formale sa sottrarsi sia alla vulgata che riduce il kantismo a liberalismo, sia all'opposto rischio di ridurre il pensiero kantiano ad antropologia, e dunque di assolutizzare in maniera miope i particolarismi delle comunità storiche. La comunità di Kant non è l'orizzonte storico particolare di particolari costumanze e identità politiche, bensì una struttura ideale resa possibile dalla legge morale, cioè una prospettiva critica della libertà sull'esistente. |
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| ![]() ![]() A cura di: Brunella Casalini Emanuela Ceva Dino Costantini Nico De Federicis Corrado Del Bo' Francesca Di Donato Angelo Marocco Maria Chiara Pievatolo Progetto web di Maria Chiara Pievatolo Periodico elettronico codice ISSN 1591-4305 Inizio pubblicazione on line: 2000 ![]() ![]() |
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