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Ultimo aggiornamento 8 gennaio 2002
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Francesco Remotti, Contro l'identità, Roma-Bari, Editori Laterza, 2001.
Il titolo del saggio di Remotti può essere interpretato come una sorta di esortazione rivolta dall'autore a coloro che si occupano di problemi di identità: andare contro l'identità significa comprenderne il carattere convenzionalistico, trattarne, cioè, non come un'essenza data e immutabile della natura umana, ma come il prodotto di scelte e opzioni culturali. Con ciò Remotti vuol sostenere che l'identità in sé non esiste, ma esistono semplicemente diversi modi di organizzare il concetto di identità, la quale viene sempre e in qualche modo costruita e determinata, inventata. Costruire l'identità è un'esigenza naturale dell'uomo, ricollegabile alla sua particolare struttura biologica, che ben lontano dall'immagine di base rocciosa e solida, risulta carente e insufficiente: tali limiti e carenze determinano i processi di elaborazione culturale, sociale e quindi anche identitaria. La teoria dell'uomo come animale incompleto, di cui Geertz rappresenta il principale referente ("noi siamo animali incompleti e non finiti che si completano e si ridefiniscono attraverso la cultura"), riconduce immediatamente, per Remotti, alla questione dell'identità: dal momento in cui l'essere umano esce dalla sua precarietà, egli affronta il problema dell'identità, ovvero di una sua specifica e peculiare identità culturale con la quale si realizzerà un legame di dipendenza profonda. Tale identità sarà inevitabilmente particolare in quanto costruita in ambienti sociali variabili nello spazio e nel tempo; la lezione antropologica è, in questo senso, molto chiara: Qualunque forma di organizzazione umana è ineluttabilmente ancorata all'adozione di criteri particolari che le rendono l'universalità strutturalmente impossibile (Levi Strauss). La particolarità conferisce all'identità coerenza e continuità nel tempo, diventandone così condizione stessa di esistenza: ma se ciò è corretto a livello funzionale, diventa invece problematico quando il binomio particolarità e identità venga posto sul piano dell'auto-rappresentazione. Le due categorie, infatti, possono convivere armoniosamente fin quando il problema dell'identità non diviene particolarmente pressante: le società che accettano la propria particolarità riconoscono implicitamente i propri limiti e si aprono positivamente all'inclusione dell'alterità. Le società che intendono, invece, affermare in modo più vigoroso la propria identità, cercano di sganciarla in qualche modo dalla particolarità delle proprie condizioni storiche e culturali, rifacendosi a principi di legittimazioni potenzialmente universali e non negoziabili: in questo senso la religione ha giocato un ruolo fondamentale e in particolar modo Remotti attribuisce al monoteismo la responsabilità di aver costruito identità spesso chiuse, rigide, avverse all'alterità. Cristianesimo, islamismo, ebraismo hanno forgiato identità molto forti perché chiuse e circoscritte da un noi, eletto e depositario di un Dio che è l'unico Dio: ciò pone il noi su un piano eticamente più elevato rispetto agli altri, che non rappresentano più l'alterità come differenza positiva ma l'alterità come male, impurità, soprattutto minaccia. Da ciò scaturisce la così detta Identità armata, un'identità, cioè, generalmente intollerante, che, ritenendo opportuno l'uso della forza per difendersi dal pericolo rappresentato dall'alterità, è stata spesso la causa di grandi disastri di cui è piena la storia, purtroppo anche recente, della società: "un'identità armata, irrigidita, assolutizzata, provoca discriminazioni, lacerazioni e violenze particolarmente acute". La tesi di Remotti a questo punto è chiara: se l'identità ha un carattere irrinunciabile, essa, da sola, rischia però di essere troppo selettiva e riduttiva. Ciò che si perde è soprattutto l'apertura all'alterità, "anzi il bisogno di alterità, che, spesso in modo molto dialettico, si intreccia quasi inestricabilmente con l'esigenza di identità". Attingendo direttamente dalla propria esperienza di antropologo ed etnologo, Remotti porta ad esempio il rito del cannibalismo indigeno di alcune tribù africane: l'atto di cibarsi del nemico è l'estrema rappresentazione dell'annullamento dell'altro, della negazione dell'alterità. Tuttavia, la reciprocità della pratica da parte di tribù rivali, pone in rilievo un significato più profondo del rituale: cibandosi dell'alterità, infatti, si realizza il recupero delle fonti della propria identità. Lo straniero, il nemico, la sua condizione di estrema alterità, consente di porsi in contatto con i propri antenati, di riappropriarsene e di riassimilarli. Il cannibalismo tupunimba dimostra come il recupero dell'integrità del noi si attua attraverso un meccanismo che riguarda allo stesso tempo sia l'identità che l'alterità, ponendo quest'ultima nel cuore stesso dell'identità, nella sua formazione, nel suo destino. Il saggio si conclude sviluppando le premesse implicite nel concetto di identità costruita: la costruzione dell'identità, se da una parte è un'operazione irrinunciabile poiché legata alla condizione di animale biologicamente manchevole, rimane pur sempre una finzione, una maschera, che l'autore definisce leggera. Tuttavia, a questa finzione originaria possono aggiungersi finzioni secondarie, il cui scopo è quello di salvaguardare l'identità stessa, sottrarla, cioè, alla precarietà da cui ha avuto origine, negando la finzione originaria: l'attribuzione dell'identità a soggetti entificati come Dio, la natura o l'etnia corrisponde a questo scopo e ha il pregio di forgiare un'identità potenzialmente perenne e coerente, legittimata, persino, all'espansione e ad una sua diffusione virtualmente universalistica ai danni di una alterità, percepita solo come minaccia e contro cui è pienamente legittimo armarsi. Questa, per Remotti, è l'essenza dell'identità come maschera pesante, dell'identità contro cui dobbiamo combattere perché troppo esclusivista e assolutista: così come la psicologia ha messo a nudo il carattere molteplice e variegato dell'io, ai popoli, ai gruppi etnici, religiosi e nazionalistici spetta il compito di trasferire questa visione alla propria autorappresentazione, accogliendo, quindi, modelli identitari che prevedano una qualche forma di comunicazione, di dialogo, di confronto con un' alterità positiva, a cui si riconosca un ruolo formativo fondamentale nella stessa costruzione dell'identità. |
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![]() ![]() A cura di: Brunella Casalini Emanuela Ceva Dino Costantini Nico De Federicis Corrado Del Bo' Francesca Di Donato Angelo Marocco Maria Chiara Pievatolo Progetto web di Maria Chiara Pievatolo Periodico elettronico codice ISSN 1591-4305 Inizio pubblicazione on line: 2000 ![]() ![]() |
Il settore "Recensioni" è curato da Brunella Casalini, Nico De Federicis, Roberto Gatti, Barbara Henry, Angelo Marocco, Gianluigi Palombella, Maria Chiara Pievatolo. |