Michael J. Sandel, Il liberalismo
e i limiti della giustizia, Feltrinelli, Milano, 1994, pp. 214.
Edito in lingua inglese nel 1982, questo libro prende in esame la teoria
della giustizia di John Rawls considerandone i presupposti filosofici,
epistemologici ed antropologici e le implicazioni etiche e politiche. Sandel
ha in mente "un liberalismo nel quale le nozioni di giustizia, di equità,
e dei diritti individuali svolgono un ruolo centrale" (p. 11); un liberalismo
che, a partire da Locke e Mill, ha esaltato il primato della giustizia
sul bene. Questo primato è stato difeso sia con argomenti utilitaristici,
sia con la tesi kantiana della priorità del diritto sui fini che
gli uomini hanno naturalmente. Questa priorità della giustizia viene
riaffermata nel liberalismo contemporaneo (Rawls, Dworkin, Ackerman) attraverso
la deontologia. Rawls in particolare sostiene di aver sviluppato la deontologia
kantiana isolandola "dal suo contesto metafisico". Ora, obbietta Sandel,
la sua concezione trascendentale del soggetto produce una "una deontologia
dal volto di Hume" che "riesce a conquistare il primato della giustizia
soltanto a costo di negarle la sua situazione umana" (p. 24). D'altra parte
le critiche sociologiche all'individualismo rawlsiano non colgono nel segno
perché la razionalità fondante del liberalismo non esclude
quei valori di solidarietà che i communitarians prediligono: il
fatto è che il liberalismo deontologico afferma il primato della
giustizia grazie ad una certa visione del soggetto.
Questo soggetto, capace di trascendere i suoi bisogni e le sue aspirazioni
partecipa secondo Sandel al circolo vizioso per cui la priorità
dell'io (rispetto ai suoi fini) determina il primato della giustizia e
questa ha sua volta garantisce l'unità delle credenze dell'io. Non
solo: le esigenze deontologiche sono in contrasto con le condizioni empiriche
che generano le circostanze di giustizia: "se la giustizia dipende per
la sua validità da certe precondizioni empiriche, non è chiaro
come la sua priorità possa essere affermata incondizionatamente"
(p. 42).
Sandel prende in considerazione tutti gli accorgimenti euristici del
sistema rawlsiano: il velo di ignoranza esclude informazioni importanti
rendendo il soggetto deontologico troppo astratto. Nella posizione originaria
l'imparzialità "è distorta a favore di particolari concezioni
del bene" (p. 40). L'equilibrio riflessivo, muovendosi fra convinzioni
sulla giustizia e giudizi di ragionevolezza manca di una teoria del soggetto
morale perché "il soggetto morale... forgia i principi di giustizia
e ne è al medesimo tempo forgiato a loro immagine" (p. 60-62).
Il liberalismo di Rawls rifiuta di dare valore morale all'arbitrarietà
naturale e considera "patrimonio comune" la distribuzione delle doti naturali.
Conseguentemente propone il "principio di differenza": sono giuste solo
le diseguaglianze che operano a beneficio dei membri meno avvantaggiati.
Questa teoria distributiva è stata criticata da più parti.
Per la teoria meritocratica di D. Bell le istituzioni sono tenute a compensare
certi attributi piuttosto che altri. Secondo R. Nozick considerare le doti
naturali come "patrimonio comune" contraddice i presupposti individualistici
del liberalismo deontologico. Secondo Sandel invece le difficoltà
derivano dal fatto che Rawls allontana troppo l'io: nel principio di differenza
nessun attributo o caratteristica della persona è essenziale, così
"non sono le persone ma soltanto i "loro" attributi ad essere usati come
mezzi per il benessere degli altri" (p. 92). Insomma la giustizia di Rawls
si fonda su una fragile concezione della persona.
Un'altra critica riguarda l'aspetto procedurale che caratterizza il
liberalismo rawlsiano. Per i contrattualisti il contratto non è
un vero contratto storico, ma un'ipotesi. Per Rawls però le ipotesi
sono due perché il contratto "non solo non è mai avvenuto,
ma si immagina che sia stato sottoscritto tra certi tipi di esseri che
non sono mai realmente esistiti" (p. 119). Ora, la reale forza di una procedura
consiste nell'essere effettivamente portata a termine (non semplicemente
ipotizzata); secondariamente "una convenzione sulle convenzioni non crea
una principio morale, ma solo un ulteriore fatto sociale" (p. 130).
Per Sandel il termine "accordo" nasconde due significati: in senso
volontarista è una "scelta fatta insieme", in senso cognitivo è
"riconoscere la validità di un'affermazione". Nel primo senso Rawls
dice che la scelta determina i principi di giustizia, nel secondo che le
parti riconoscono principi già esistenti. La sua giustificazione
della (nei due sensi del genitivo) posizione originaria comporta un circolo
vizioso: "i contratti reali presuppongono i principi di giustizia i quali
a loro volta derivano da un ipotetico contratto originale" (p. 134).
Insomma "il segreto della posizione originaria - e la chiave della
sua forza giustificatoria - non sta in ciò che le parti vi fanno
ma piuttosto in ciò che vi apprendono... Quello che accade nella
posizione originaria, dopo tutto non è un contratto, ma l'avvento
di una consapevolezza di sé di un essere intersoggettivo" (p. 147).
Una certa concezione del soggetto morale è il presupposto del primato
della giustizia. Ma secondo Sandel "una teoria morale completa deve dare
una spiegazione del bene oltre che del giusto" (p. 148). Il neocontrattualismo
e l'utilitarismo legittimano le pretese della collettività sugli
attributi e sulle doti naturali degli individui con il rischio di diventare
"una formula per usare qualcuno come mezzo per i fini di altri" (p. 160).
La deontologia, affermando "che la nostra identità non è
mai legata ai nostri obiettivi e ai nostri affetti..." dimentica che "nel
valutare le mie preferenze, non devo valutare soltanto la loro intensità,
ma anche accertare se si adattano o meno alla persona che sono (già)"
(pp. 195, 196).
A queste pretese della collettività Sandel contrappone una definizione
intersoggettiva della persona che si articola fra i due poli del bene e
del giusto. In quanto io noumenici (nella posizione originaria) arriviamo
ai principi di giustizia, in quanto io reali, arriviamo alla concezione
del bene: "mentre in privato possiamo essere io densamente costituiti,
in pubblico dobbiamo essere completamente sgombri" (p. 198).
Come ha scritto Charles Taylor con questo libro "Sandel ci costringe
a prendere sul serio la domanda: che tipi di soggetti dobbiamo essere perché
il nostro parlare di giustizia abbia senso?".
Nardo
Bonomi
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