Abdelmalek Sayad, sociologo algerino, ha
dedicato la sua vita allo studio del fenomeno
dell'emigrazione-immigrazione. Quando è venuto a
mancare nel 1998 non aveva ancora potuto riunire assieme secondo
una prospettiva comune, come pure era sua intenzione,
l'insieme dei suoi studi. Aveva però affidato a
Pierre Bourdieu un "abbozzo di piano, una
specie di sommario"(p. 1) a partire dal quale sarebbe stato
tratto il presente volume: "un'opera coerente, centrata
sui testi essenziali, più che una pubblicazione letterale
e integrale", secondo le intenzione concordate dei sociologi
algerino e francese (p. 3). Sfrondato dalle ripetizioni e portato
ad efficacia dal lavoro di sintesi di Bourdieu, il libro, che
Cortina pubblica in edizione italiana a cura di Salvatore
Palidda, affronta il tema delle migrazioni facendo
propria una prospettiva che appare subito disorientante e
"sovversiva" rispetto agli assunti della
tradizione accademica dominante.
Il punto di attacco è dirompente: la riflessione
sociologica e politica in materia di migrazioni, quella che viene
comunemente definita la "scienza delle
migrazioni" non riesce che a produrre saperi
funzionali ad un miglior sfruttamento (economico e simbolico)
delle migrazioni stesse. Essa non sa né può opporsi
all'immagine dell'immigrato come mera forza lavoro, che
si sposta seguendo passivamente le pressioni meccaniche indotte
dalla divisione del mercato mondiale del lavoro lungo rotte
utilitaristicamente determinate. Le migrazioni, nella
ricostruzione scientificamente dominante, seguono logiche
di sviluppo di tipo idraulico. Non c'è da
stupirsi che una simile opzione ermeneutica produca come sua
quasi naturale conseguenza l'immagine mediaticamente
onnipresente di confini minacciati dall'insostenibile
pressione delle ondate migratorie. Per Sayad,
studiare le migrazioni in termini di flussi serve forse
a produrre e riprodurre quei flussi in maniera vieppiù
consapevole, ma non avvicina di un passo alla complessità
del fenomeno migratorio. Di più, ciò che viene
messo in chiaro dal nostro autore è che una simile
prospettiva, lungi dal muoversi secondo linee di
pretesa neutralità
assiologica, riproduce come un calco le "linee di
pensiero" sulle quali si organizza e si legittima la
dominazione stessa. Una logica etnocentrica, insostenibilmente
carica di valori, che spinge la scienza sociale verso una fatale
rimozione. L'oggetto da studiare è, insegna questa
logica, sempre e comunque l'immigrazione. Il rimosso di
questo processo, l'emigrazione, non può però, a
parere di Sayad, essere sottratto alla discussione senza far
letteralmente scomparire l'oggetto che si vorrebbe indagare.
Ed ecco il primo punto fermo della riflessione di Sayad:
ogni immigrazione è sempre anche una emigrazione,
e viceversa ogni emigrazione è anche una
immigrazione.
"Ogni studio dei fenomeni migratori che dimentichi le
condizioni d'origine degli emigrati si condanna ad offrire
del fenomeno migratorio solo una visione nel contempo parziale ed
etnocentrica: da una parte, come se la sua esistenza cominciasse
nel momento in cui arriva in Francia, è l'immigrante -
e lui solo - e non l'emigrante a essere preso in
considerazione; dall'altra parte, la problematica, esplicita
ed implicita, è sempre quella dell'adattamento alla
società di accoglienza" (p. 44)
Ogni presenza, per prodursi deve produrre anche assieme a se
stessa una reciproca assenza. Ogni immigrato nelle nostre
società è assieme un emigrato dalla sua
società d'origine. Ogni studio del fenomeno non
può dimenticare questo essenziale dato di partenza. Di
fatto l'impatto dell'emigrazione-immigrazione è
stato quasi sempre studiato mettendolo in rapporto solo ed unicamente ai
suoi effetti sulla società di accoglienza. Non si sono
adeguatamente approfonditi gli effetti dell'emigrazione sulla
società di partenza, e, ancor meno, si è tentato di
leggere l'insieme del processo come un tutto. La stessa
condizione dei migranti nella nostra società, che pure non
può essere letta senza far riferimento al rapporto
intrattenuto dagli stessi con la società d'origine,
è pensata essenzialmente nei termini
dell'accoglienza,
dell'integrazione,
dell'assimilazione tutti concetti
che l'autore ritiene sbilanciati, etnocentrici,
parziali (cfr. anche R. Gallisot - M. Kilani -
A. Rivera, L'imbroglio etnico in quattordici
parole chiave, Dedalo, 2001). Sayad non vuole certo
sostituire alla retorica dell'accoglienza una retorica della
nostalgia. Quando avvicina il rapporto tra il migrante e la
società d'origine, ne mette in luce innanzitutto il
carattere di aperta conflittualità. Detto in altri
termini, l'emigrato-immigrato si presenta alla riflessione di
Sayad come una figura doppiamente sovversiva, sovversiva
cioè tanto rispetto alla società d'accoglienza,
quanto (ma storicamente innanzitutto) rispetto alla
società di origine.
Il libro si sofferma lungamente sulla storia della
emigrazione-immigrazione algerina in Francia,
che del processo dell'emigrazione-immigrazione viene elevata
a caso esemplare. Sayad ne distingue con
chiarezza momenti e modelli, ponendoli con accuratezza storica e
consapevolezza politica sullo sfondo del rapporto
coloniale che la genera. Lo sguardo di Sayad continua
anche in quest'ambito a mantenersi complesso: il fenomeno
migratorio é pensato come assieme individuale e collettivo
(p. 89), insieme causa ed effetto del sottosviluppo, causa ed
effetto della modernizzazione. Espressione del legame diseguale
tra la Francia e l'Algeria, la vicenda
dell'emigrazione-immigrazione algerina in Francia diventa il
paradigma del rapporto di oggettiva
complicità che si instaura tra paesi di
emigrazione e di immigrazione. Tale complicità si fonda su
una lettura simmetricamente funzionalista (o,
per usare un espressione cara ad Alain Morice,
utilitarista), capace di interpretare il fenomeno solo
nei termini riduttivi di un calcolo di costi e benefici. Ma
immediatamente al di sotto della retorica del costi-benefici, al
di sotto cioè di una
"questione apparentemente tecnica viene posto
oggettivamente l'intero problema della
legittimità dell'immigrazione, problema che
tormenta tutti i discorsi di natura analoga. Non c'è
pressoché alcun discorso sugli immigrati e sulla funzione
dell'immigrazione, soprattutto quando è svolto
esplicitamente e scientemente, come nel caso della "teoria
economica dei costi e dei profitti comparati
dell'immigrazione", che non consista ora nel legittimare
ora nel denunciare l'illegittimità fondamentale
dell'immigrazione" (p. 108)
Il tema della legittimità del migrare, posto
all'ordine del giorno per motivi inversi e complementari sia
dai paesi di emigrazione che da quelli di immigrazione, ci
permette di avvicinare quello che, a parere dell'autore,
può essere considerato il carattere
essenziale (e costantemente rimosso) del
fenomeno migratorio: il suo essere atto
eminentemente politico (cfr. ad es. p.123) che nessuna
teoria dei costi benefici sarà mai in grado di avvicinare
proficuamente.
Le parti in gioco, nella vicenda politica
dell'emigrazione-immigrazione, sono tre: da un lato gli
emigrati-immigrati, dall'altro gli Stati d'origine e
quelli d'accoglienza. Rispetto ad essi
l'emigrante-immigrante appare qui come portatore di interessi
autonomi e, spesso, opposti ad entrambi.
Sul carattere politico dell'emigrazione-immigrazione Sayad
si sofferma in particolare nel corso del penultimo capitolo del
libro (che in Italia era già apparso in una traduzione
parziale all'interno della rivista "aut aut" con il
titolo La doppia pena del migrante. Riflessioni sul
"pensiero di Stato"¸ "aut aut", n.
275, 1996). Scrive Sayad:
"Malgrado l'estrema diversità delle
situazioni, malgrado le sue variazioni nel tempo e nello spazio,
il fenomeno dell'emigrazione-immigrazione manifesta delle
costanti, cioè delle caratteristiche (sociali, economiche,
giuridiche, politiche) che si ritrovano lungo tutta la sua
storia. Queste costanti costituiscono una sorta di fondo comune
irriducibile, che è il prodotto e al tempo stesso
l'oggettivazione del "pensiero di
stato", una forma di pensiero che riflette,
mediante le proprie strutture (mentali), le strutture dello
stato, che così prendono corpo."(p. 367)
Lo stato nazionale per esistere deve discriminare, deve
darsi dei confini, deve definirsi delimitandosi. Se il confine
é essenziale alla (auto)definizione dello stato,
l'immigrato ricorda allo stato l'arbitrarietà
della sua genesi. Di fronte a questi confini la figura del
migrante appare portatrice di una virtù intimamente
perturbatrice e inevitabilmente sovversiva. Lo stato, ogni stato,
ama pensare se stesso nei termini di una mitica
omogeneità; il migrante perverte questa immaginata
integrità (e integralità) dell'ordine
statal-nazionale, costringendolo a interrogarsi
sull'arbitrarietà dei propri limiti, attaccandone la
definizione originaria, ponendola al di sotto di una luce
inevitabilmente storica e contingente. Comprendere questo
significa comprendere come
"Le categorie sociali, economiche,
culturali, etiche … e, per farla breve, politiche,
con cui pensiamo l'immigrazione e più
in generale tutto il nostro mondo sociale e politico,
sono certamente e oggettivamente (cioè a
nostra insaputa e, di conseguenza, indipendentemente dalla nostra
volontà) delle categorie nazionali,
perfino nazionaliste"(pp. 367-368)
L'emigrazione-immigrazione non
può che essere pensata, a parere di Sayad, all'interno
del quadro dello stato (nazione), non può essere pensata
che come pensiero di stato. Nella
autoriflessione dello stato nazionale sulle migrazioni dobbiamo
dunque scorgere uno stato che pensa se stesso, i propri limiti e
con ciò la propria verità. Questa autoriflessione
attraversa tutti noi,
"figli di uno stato nazionale, e quindi figli delle
categorie nazionali che portiamo in noi stessi e che lo stato ha
messo in noi. Noi tutti pensiamo l'immigrazione (cioè
gli "altri" da noi, ciò che sono, ma in questo
modo, attraverso di loro, ciò che noi siamo quando li
pensiamo) come lo stato ci chiede e ci addestra a pensarla,
cioè in fin dei conti come la pensa lo stato stesso. Ecco,
in sintesi, ciò che può essere il pensiero di
stato" (la traduzione viene qui tratta dalla prima versione
italiana del saggio apparsa su "aut aut",
p.12)
De-naturalizzato e ri-storicizzato dalla sua ingombrante
presenza lo stato percepisce il migrante come
minaccia. Egli delegittima il legittimo, sbugiardandone
la presunta naturalità e desacralizzandone i discorsi
fondativi. É qui che risiede la sua colpa
originaria, ed è qui la ragione per la quale
l'immigrato non potrà mai essere un "elemento
neutro"; egli appare piuttosto come un "reato
latente", un reato che consiste nel solo fatto di
essere un immigrato, violentatore di confini e irrisore di miti
fondativi:
"Così, prima ancora che si possa parlare di
razzismo o xenofobia, la nozione di doppia pena è
contenuta in tutti i giudizi emessi sull'immigrato (e non
solo i giudizi emessi dai tribunali). Essa si radica nel
"pensiero di stato" base antropologia su cui poggiano
tutti i nostri pregiudizi sociali. La "doppia pena"
esiste oggettivamente nel nostro modo di pensare, ancora prima di
esistere in una forma oggettivata, come sanzione di un tribunale
giudiziario o di una decisione
amministrativa" (p. 372)
Ad essere colpevole è la stessa presenza
dell'immigrato: egli è fuori posto
(déplacée) ed è per questo che la
sua posizione non può essere connotata politicamente. Non
alla politique si deve, secondo le regole del pensiero
di stato, ispirare il rapporto dell'immigrato con il paese di
accoglienza, ma alla politesse, alla buona pratica di
dare nell'occhio il meno possibile, di accettare ogni regola
del gioco così come essa è formulata dai padroni di
casa. Ed è parte di queste buone maniere la regola non
scritta per la quale all'immigrato spetta un ruolo di
"neutralità politica" cui deve
corrispondere una "iper correttezza
sociale". L'immigrato, potenziale eversore
dell'ordine morale, politico, economico e simbolico
costituito, è una minaccia. Egli contiene in sé il
germe della paura. E da ciò l'imperativo decisivo
" imposto ad ogni presenza straniera":
"Rassicurare, rassicurarsi".
Una doppia spirale di paura lega dunque l'emigrato-immigrato
ad una società che teme e dalla quale è temuto, e
rispetto alla quale l'unico atteggiamento di bon ton
è quello di una sostanziale e rassegnata
sottomissione, funzionale al suo migliore sfruttamento
da parte del sistema economico.
L'importanza del lavoro di Sayad è corroborata
dalla straordinaria attualità delle tematiche affrontate.
Il tema della paura nel discorso politico e spettacolare intorno
all'immigrazione è usato in forma sempre più
massiccia e con risultati così "brillanti" da
far pensare che non sarà abbandonato molto facilmente. La
sua straordinaria efficacia elettorale è stata
sperimentata nel corso degli ultimi anni in molti dei paesi che
si autodefiniscono occidentali, dall'Australia alla Francia,
dalla Spagna sino all'Italia, dalla Svizzera alla Gran
Bretagna. Lo spettro del migrante-criminale (e
dopo il 9/11 potenziale-terrorista) è stato agitato nelle
arene elettorali di paesi che si ritengono civilissimi e che si
dotano nel contempo di frontiere sempre più militarizzate,
in previsione di temuti assedi o alluvioni.
Michael Moore nel
suo bellissimo film documentario Bowling for
Columbine descrive gli Stati Uniti d'America come un
paese costituzionalmente in preda alla paura. Di questa
paura l'ottimo regista americano ricostruisce la storia
attraverso una breve animazione che parte con la rievocazione
dell'arrivo dei primi coloni, in fuga dalle guerre di
religione ed in preda ad un comprensibilissimo panico, e arriva a
mostrare, passando attraverso le fobie e le violenze della
segregazione razziale, come la grande paura della
microcriminalità che attualmente stringe in un gelido
abbraccio spettacolare il popolo americano, abbia ancora molto a
che fare con la costruzione sociale di un nemico definito
da caratteri razziali (o etnici, se vogliamo usare
questo eufemismo). Del resto, l'ipercarcerazione cui neri ed
ispano-americani sono oggetto negli States è fatto noto da
tempo, fatto sul quale spesso noi europei costruiamo un senso di
superiorità morale nei confronti dei cugini d'oltre
Atlantico. Ciò avviene ormai, bisognerebbe ben dirlo, del
tutto a sproposito. L'accanimento dei sistemi giudiziari e
penali europei nei confronti dei migranti (di ogni colore, solo
in questo si conserva una pallida immagine della presunta
vocazione europea all'universalismo..) è del tutto
paragonabile, se non persino peggiore nella perversa
selettività, a quello dei tribunali e delle carceri
americane (cfr. a proposito L. Wacquant,
"Nemici convenienti". Stranieri e migranti nelle
prigioni d'Europa, contenuto in Simbiosi mortale.
Neoliberalismo e politica penale, Ombre Corte, Verona, 2002;
S. Palidda, La criminalization des migrants
en Europe, in "Actes de la recherche en Sciences
Sociales"¸ n. 129, 1999).
La prospettiva di una cittadinanza europea affiancata dalle
politiche migratorie attualmente adottate e dalle retoriche
politiche messe in gioco sui mercati elettorali dei singoli
paesi, rischia di far precipitare l'Europa lungo una china
tragicamente pericolosa, lungo la quale ciò che potrebbe
sostanzialmente dissolversi è il concetto stesso
di cittadinanza. La cittadinanza infatti, persa lungo il cammino
gran parte delle sua connotazione originariamente progressiva,
rischia oggi di divenire il più potente tra gli strumenti
di esclusione sociale. E' questo un punto sul quale la
riflessione teorica non può essere assente senza
ritrovarsi partecipe della piena responsabilità di
ciò che sta per avvenire.