D. Miller, On Nationality, Oxford, OUP, 1997
Y. Tamir, Liberal Nationalism, Princeton (N.J.), PUP, 1993
Il sentimento di appartenenza nazionale non è oggetto di un processo
di irrimediabile declino, contrariamente a quanto affermato da chi parla
di età "post-nazionale", intendendo riferirsi a quella attuale,
e prefigura una quanto mai prossima realizzazione di qualche forma di
cosmopolitismo.
Senza dubbio, tuttavia, tale sentimento di appartenenza è divenuto,
nel suo fondamento e nelle sue implicazioni, decisamente problematico:
di qui l'opportunità di una riflessione intorno ai suoi possibili
significati ed alle sue conseguenze entro lo scenario politico-giuridico
contemporaneo, pluralistico e multiculturale. Questa la premessa implicita
di fondo da cui muovono Miller e Tamir nei loro rispettivi lavori. Si tratta
di due volumi di notevole interesse per lo sforzo da essi mostrato nel
coniugare, con una ricchezza argomentativa decisamente apprezzabile, due
angolazioni d'indagine intorno al concetto di nazione: quella relativa
alla giustificazione dei diritti culturali in un contesto multiculturale
e quella connessa ai problemi insiti nei rapporti tra universalità
e particolarismo. È proprio nel punto di contatto fra queste
angolazioni
d'indagine che il concetto di nazione e la possibilità di assumerla
quale fondamento per diritti e doveri morali e giuridici emergono in tutta
la loro problematicità.
Tre i nodi tematici comuni ai due volumi: (1) la giustificazione in
chiave morale degli obblighi che legano tra loro i membri di contesti
particolari,
quali sono appunto le nazioni, secondo argomenti dagli autori giudicati
compatibili con alcune irrinunciabili istanze di fondo del liberalismo.
In tal senso, liberalismo e universalismo etico non sarebbero necessariamente
connessi. (2) Uno sforzo - richiesto per la tenuta della tesi appena esposta
- nel senso di una ridefinizione del concetto di nazione e del principio
di nazionalità, che corregga l'impegno nei confronti della
neutralità
dello stato proprio del liberalismo tradizionale ma anche le derive
etnocentriche
di varie posizioni anti-liberali. (3) La definizione dei rapporti tra diritti
all'identità culturale (nel quadro dell'importante questione della
giustificazione del diritto all'autodeterminazione nazionale) e diritti
umani.
Sono le nazioni delle entità immaginarie? Quali le conseguenze
della risposta a tale quesito in rapporto agli obblighi che l'appartenenza
ad esse pone? Come è possibile giustificare le domande di
autodeterminazione
nazionale e quanto in là è lecito che tali domande si spingano,
di fronte al multiculturalismo caratterizzante le nazioni nel contesto
contemporaneo? Queste, in sintesi, le domande che guidano la riflessione
del lavoro di Miller. Nell'accogliere la definizione di nazione come
«comunità
immaginaria» fornita da Anderson, Miller sottolinea come la nazione,
e conseguentemente il sentimento di appartenenza ad essa, siano il portato
della cultura pubblica, a sua volta determinata e costantemente modificata
dal dibattito pubblico. Ciò consente, nell'ottica dell'autore, (a)
di differenziare la propria difesa del concetto di nazione e della sua
valenza etica e politica da forme anti-liberali (e illiberali) di
nazionalismo;
(b) di legittimare in senso morale gli obblighi che legano vicendevolmente
i membri di una nazione. Uno degli intenti che caratterizzano la riflessione
di Miller su questo punto è comunque quello di dimostrare la
compatibilità
tra questi obblighi particolaristici con gli obblighi che legano tra loro
tutti gli uomini in quanto tali. L'idea è che ci si possa
rapportare agli altri secondo due distinte ma non esclusive modalità:
come esseri umani rispetto ad altri esseri umani e come membri di una nazione
verso membri di un'altra nazione. Possiamo avanzare alcune riflessioni
su questo punto. La possibilità di conciliare le due modalità
deriverebbe dal fatto che gli obblighi che abbiamo verso gli altri in quanto
esseri umani si connotano come diritti fondamentali, ai quali gli obblighi
particolari verso i membri della propria nazione andrebbero ad affiancarsi.
Ma secondo quale criterio gerarchico? Il bisogno di individuare criteri
che consentano di stabilire delle priorità tra doveri verso
l'umanità
e doveri verso i connazionali emerge non appena si ponga attenzione alla
non remota possibilità di conflitto tra i due tipi di doveri. Su
questo punto l'analisi condotta da entrambi gli autori diviene meno precisa:
se; da un lato, viene rifiutata, perché ritenuta eccessivamente
semplificante, la soluzione che pone i diritti fondamentali come un nucleo
inviolabile e che legittima, pertanto, le lealtà particolaristiche
solo a patto che non comportino una violazione di tali diritti, non viene
d'altra parte avanzata una precisa risposta alternativa. La legittimazione
delle lealtà particolaristiche viene elaborata su basi a prima vista
più solide sia da Miller che da Tamir grazie ad un argomento a
carattere
più spiccatamente filosofico-politico, centrato sulle idee di giustizia
distributiva e di lealtà politica. Nella più elaborata
formulazione
datane da Tamir esso svela come proprio dietro la concezione liberale dello
stato sociale si nascondano necessariamente dei «valori legati all'idea
di nazione». Come giustificare altrimenti che l'orizzonte di riferimento
della giustizia distributiva sia proprio la nazione? Se la valenza morale
dei criteri distributivi realmente poggiasse su assunti universalistici,
risulterebbe del tutto priva di fondamento la restrizione del processo
distributivo ai confini nazionali. Ancora, come spiegare che anche in
un'ottica
liberale gli individui abbiano obblighi di lealtà politica verso
il proprio stato, anche nel caso in cui questo non si dimostri come
il più giusto, anzi anche nell'eventualità che non si dimostri
giusto affatto?
È a questo punto che il confronto con le tesi di Miller e Tamir
conduce ad un nodo nevralgico, dotato di fondamentali implicazioni qualora
si vogliano considerare in modo congiunto le questioni dell'autodeterminazione
nazionale e dei diritti culturali. Come lo stesso Tamir non manca di
osservare,
i termini "stato" e "nazione" sono spesso usati come sinonimi, ma tali
non sono e non lo sono per precise ragioni storiche: il processo di
costituzione
degli stati non ha, infatti, sempre seguito le spinte di auto-determinazione
dei vari nuclei nazionali, il che va in questi anni rendendosi sempre
più
evidente con il fenomeno delle reviviscenze dei nazionalismi sotto forma
di volontà secessionistiche. Ciò rappresenta una ragione
a favore della necessità di distinguere tra diritto
all'autodeterminazione
e diritto all'autogoverno. Eppure, questa opportuna distinzione semantica
finisce col perdersi nei momenti decisivi delle argomentazioni qui analizzate.
La tesi secondo cui gli obblighi associativi inevitabilmente rinviano ad
un qualche senso di appartenenza, il quale necessariamente funge da loro
riserva motivazionale non comporta di per se stessa anche l'idea che
l'orizzonte
dell'appartenenza debba essere rappresentata dalla nazione. Non è
cioè dimostrato che la forma di solidarietà basata
sull'appartenenza
nazionale sia la più consona a società dinamiche ed egualitarie.
Tutto dipende, come correttamente Miller e Tamir evidenziano, da cosa
intendiamo
con "nazione". In questa prospettiva, quel che in entrambi i lavori viene
escluso è una definizione di questo concetto in termini etnici,
ma basta ciò a difendere una riformulazione del nazionalismo in
senso liberale dagli attacchi del cosmopolitismo da un lato e del
multiculturalismo
radicale dall'altro? La definizione della nazione come "comunità
culturale" potrebbe non essere meno problematica dell'idea di comunità
etnica, diversamente da quanto in questi due lavori si tende a sostenere.
Vediamo di considerare più approfonditamente gli argomenti addotti
a dimostrazione della possibilità di riconoscere al tempo stesso
il ruolo dell'appartenenza ad un gruppo nazionale nella costruzione di
uno spazio civico ed il valore dell'autonomia e della libertà
individuali.
Risulta d'obbligo, a questo punto, il confronto con le tesi intorno alla
relazione tra individuo e contesto di appartenenza. La difesa del
"nazionalismo
liberale" non potrebbe non muovere da una soluzione intermedia rispetto
a quelle che sono solite fronteggiarsi nell'arena della filosofia politica
contemporanea, ossia la tesi della radicale autonomia dell'individuo dal
contesto per ciò che concerne la definizione della sua identità
politica (quella parte della sua identità che interessa la sfera
pubblica), da un lato, e la tesi della totale internità dell'individuo
al contesto di appartenenza. Ora, va altresì osservato che queste
due tesi sono state ben raramente difese in questi termini così
radicali e che il maggiore spostamento verso l'una o l'altra delle alternative
dipende in genere, in qualsiasi proposta, dal modo in cui viene dato conto
del processo di formazione di questa identità. È ormai inutile
sottolineare che l'adozione della seconda alternativa conduce a forme di
"determinismo culturale" (gli individui sarebbero, in tale ottica,
"imprigionati"
all'interno delle culture di origine) contrarie, in linea di principio,
ad ogni tutela dello spazio individuale, e che invece la prima alternativa
non consente di dar conto delle lealtà che di fatto spesso fondano
una comunità politica. Nella tematizzazione effettuata da Tamir,
viene escluso che gli individui si pongano di fonte alle scelte secondo
una visione "da nessun luogo", ma viene sottolineato come l'internità
ad un contesto culturale non pregiudichi di per sé la
possibilità
della scelta personale. Tuttavia, va osservato che nel dibattito intorno
a questi temi il vero problema teorico resta la spiegazione del rapporto
tra dimensione culturale e dimensione politica dell'identità dei
soggetti, la determinazione del peso che la prima esercita sulla seconda
e conseguentemente la relazione tra comunità culturali e
comunità
politiche. La non adeguata riflessione intorno a questo nodo teoretico
impedisce di comprendere chiaramente in che modo, secondo le conclusioni
di Miller e Tamir, una sorta di "nazionalismo culturale" dovrebbe e potrebbe
legittimamente porsi come alternativo tanto al nazionalismo etnico quanto
al nazionalismo civico.
Il punto è dei più complessi. Mi pare che i due lavori
in esame riescano - e risultino in tal senso complementari - nel mostrare
la possibilità, e forse anche la necessità, di pensare ad
un concetto di nazionalità che non necessariamente coincida con
la comune appartenenza etnica. La comune identità etnica può
essere, infatti, una componente in grado di definire l'identità
nazionale, ma non l'unica. Altre condizioni sono richieste, quali una certa
omogeneità culturale, una omogeneità linguistica, una comune
vita economica. Ma ciò non rende meno problematica una definizione
del principio di nazionalità in grado di contemperare le esigenze
del pluralismo, siano esse intese secondo la logica liberale o secondo
la cosiddetta logica del riconoscimento. Per cominciare, proprio la
definizione
della nazione in termini di comunità immaginaria, frutto di una
cultura (quindi, a rigore, non deterministicamente antecedente ad essa)
- come del resto lo stesso Tamir bene sottolinea, senza però fornire
una definizione veramente alternativa - non consente di distinguere tra
nazioni e altri gruppi culturali, con pesanti conseguenze per la
possibilità
di individuare argomenti a sostegno del diritto all'autodeterminazione
che non finiscano anche con il legittimare indiscriminate forme di
frammentazione
politica e sociale. In secondo luogo, si dovrà stabilire se
sia legittimo individuare, nella storia e nella cultura di una
comunità,
dimensioni che si possano considerare marginali e dimensioni che invece
entrano a pieno titolo ed in maniera essenziale a determinare una cultura.
E, ancora, come deve essere fissato il livello dell'omogeneità
culturale
qui richiamata? È infatti incontrovertibile che l'esistenza di culture
assolutamente compatte sia il frutto di visioni stereotipate, essendo ogni
cultura esposta al momento della critica, essendo anzi, in una visione
dinamica, il frutto della costante tensione tra fedeltà alla tradizione
e spinte innovatrici.
Per tutte queste ragioni, la riformulazione di un "nazionalismo
liberale"
sulla base di una definizione del concetto di nazione in termini di
"comunità
culturale" (Tamir, p. 26) non risulta soddisfacente. La falsità
della contrapposizione tra identità di gruppo e identità
nazionale - falsità denunciata da Miller, nel tentativo di congedare
le critiche al nazionalismo avanzate dai sostenitori della "politica della
differenza" e del multiculturalismo radicale - andrebbe dimostrata in modo
più efficace, principalmente sulla base di una più completa
e precisa definizione di cosa debba intendersi per "cultura". Si
tratta di una prospettiva che, a differenza delle enunciazioni programmatiche,
non può giustificare al tempo stesso il principio secondo cui il
pluralismo culturale avrebbe un valore intrinseco e quella che risulta
essere la condizione più "forte" posta da Tamir alla base della
legittimazione dell'autodeterminazione nazionale. Secondo tale condizione,
l'autodeterminazione è legittima, tra le altre cose, solo se (a)
il gruppo nazionale gode di riconoscimento anche fra i non-membri e (b)
se a tale riconoscimento fanno seguito assetti politici che rendono i membri
in grado di sviluppare la loro vita nazionale con il minor grado di
interferenza
esterna possibile. Ora, è chiaro che la richiesta sub (a) se tende,
opportunamente, a porre dei vincoli di "oggettività" alle richieste
di autonomia politica, resta incompatibile con l'idea che la pluralità
delle culture sia una valore in quanto tale e che qualsiasi cultura sia
da tutelare per il solo fatto di costituire la principale fonte di
identità
per gli individui. Peraltro, si tratta di una condizione difficilmente
soddisfatta, stando all'esperienza storica. In base ad essa, quasi tutte
le rivendicazioni di autonomia avrebbero dovuto essere negate (si pensi,
per fare un solo esempio, al caso del Tibet). La richiesta sub (b) porterebbe,
invece, a negare legittimità alle richieste di autodeterminazione
avanzate da quei gruppi nazionali inequivocabilmente individuabili come
tali, ma incapaci - per una serie di ragioni legate al retroterra storico
- di sviluppare, almeno nel breve periodo, una autonoma vita economica
e politica (si pensi al processo di decolonizzazione, che su questa base
potrebbe essere giudicato illegittimo).
In terzo luogo, si dovrà precisare con maggiore chiarezza
quale sia il nucleo comunitario di riferimento ogni qualvolta si parli
di "nazione": questo è un punto determinante rispetto al problema
dell'autodeterminazione ma è anche un nodo cruciale in un momento
in cui sempre più viva è la discussione intorno ai rapporti
tra cittadinanza e diritti umani, intorno ai rapproti tra la logica di
eslcusione che finisce con il contraddistinguere la prima e la logica di
inclusione e di universalità implicita nei secondi.
È alla luce di queste considerazioni che - mi pare - il
"nazionalismo
policentrico" e "non-etnocentrico" difeso in questi due pur articolati
ed interessanti lavori resti da fondare.
Elena Pariotti
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