I.M. Young, Le politiche
della differenza, Milano, Feltrinelli, 1996 (trad. it. di A. Bottini,
Justice and the Politics of Difference, Princeton, Princeton U.P.,
1990).
L'americana Iris Marion Young è una femminista di cultura marxista.
Il suo Justice and the Politics of Difference è un saggio
di teoria politica che rielabora con un certa originalità le influenze
che hanno contribuito alla sua formazione. Il titolo della versione italiana,
preceduta da una bella introduzione di Luigi Ferrajoli, è stato
decapitato, col rischio di produrre la fuorviante impressione
che il testo sia un ricettario politico e non un trattato filosofico sulla
giustizia. Perciò vale la pena sottolineare che la Young propone
una sua teoria della giustizia, in opposizione alle teorie liberali mainstream
di autori come Galston, Rawls, Runciman, Miller.
Se cerchiamo di districare la tesi fondamentale della Young dalle idee
alla moda che talvolta la avviluppano, otteniamo l'ideale di una democrazia
partecipativa estesa dalla sfera politica a quella economica, sociale e
culturale. L'aspetto più notevole di questa proposta è la
sua fondazione su una critica al cosiddetto paradigma distributivo: l'oppressione,
cui la giustizia ha il compito di por rimedio, non è dovuta in primo
luogo ad una iniqua distribuzione, ma a relazioni e funzioni sociali che
rendono più difficile, per alcuni, lo sviluppo e l'espressione di
sé, la visibilità sociale e la partecipazione alle decisioni.
Il paradigma distributivo condiviso, secondo la Young, dalle principali
teorie della giustizia anglofone contemporanee, assume i beni materiali
e i beni immateriali ad essi assimilati diritti, poteri, opportunità
come delle cose date, in modo tale che il solo problema della giustizia
è trovare, per essi, una distribuzione equa. Ma questa assunzione
implica una visione statica e reificata della società, delle relazioni
istituzionali e interindividuali e dei beni riconosciuti in essa. Il "distributivista"
si comporta come se la massa dei beni da distribuire fosse una grande torta
e si trattasse soltanto di ripartirne equamente le fette. In questo modo,
si adagia acriticamente sullo status quo perché non si chiede
da quali ingredienti è composta la torta, chi ne ha proposto
la ricetta, chi l'ha preparata e sfornata, e soprattutto se l'organizzazione
della pasticceria non sia tale che soltanto alcuni, a scapito di altri,
abbiano avuto effettivamente la possibilità di mettere, per così
dire, le mani in pasta. Per esempio: i teorici liberali della giustizia
si preoccupano di distribuire i posti di lavoro senza contestare la divisione
gerarchica delle mansioni lavorative. Essi sottovalutano il contesto istituzionale
proprio del luogo di lavoro, dello stato, della famiglia e della società
civile, e cioè le strutture e le pratiche sociali, le regole e norme
che le guidano, il linguaggio e i simboli con cui vengono mediate le interazioni
sociali al loro interno (cap. I). In questa prospettiva, la Young critica
le politiche assistenzialistiche, che sottraggono la questioni istituzionali
e culturali alla discussione politica e riducono i cittadini a clienti
e consumatori passivi di beni che sono assunti come dati, ma che altri,
in realtà, hanno prodotto e scelto per loro (cap. II).
In appoggio a questa interessante critica al paradigma distributivo,
la Young ripete la diffusa stigmatizzazione del modello del soggetto morale
in quanto razionale, imparziale, distaccato e universalistico (cap. III),
allo scopo di isolare i gruppi come le vere dramatis personae del
mondo sociale dell'oppressione, che forma la status quo cui si adeguano
le teorie "distributiviste", e che una teoria critica della giustizia deve
smascherare e riportare alla sua dimensione di problema politico
(cap. II).
La Young attacca l'idea secondo la quale il ragionamento morale consiste
nell'adottare un punto di vista impersonale e imparziale, distaccato dagli
interessi in gioco, in grado di soppesarli equamente e di pervenire ad
una conclusione secondo princìpi generali. Sulle tracce di Adorno,
Derrida e Luce Irigaray, questa tesi può essere ricondotta alla
cosiddetta logica dell'identità, la quale ha la pretesa di ridurre
il mondo, variegato, pluralistico, eterogeneo, discorsivo, ad un unico
identico monologico col risultato che le differenze che esso non riesce
a riassorbire diventano non semplici differenze, ma l'assolutamente altro.
Le conseguenze politiche di questa logica sono, da una parte, l'ingannevole
universalismo di un paradigma dominante (quello del maschio bianco borghese
occidentale) e, dall'altra, l'invisibilità politica e la riduzione
a stereotipo di chi in questo paradigma non si riconosce. Se è possibile
parlare solo col linguaggio degli uguali, i diversi sono condannati al
silenzio, perché non possono esprimersi colle loro parole, e alla
passività, perché sono descritti come diversi dalla lingua
e dalle pratiche degli altri. Esemplare, in questa prospettiva, è
la critica della Young a Rawls: questi attacca l'utilitarismo contrapponendogli
una pluralità di soggetti, e presupponendo che la giustizia venga
da loro contrattata. Ma il velo di ignoranza circa la posizione particolare
di ciascuno, nell'esperimento controfattuale della posizione originaria,
rimuove qualsiasi caratteristica differenziatrice, garantendo così
che tutti ragioneranno a partire da identici assunti e dal medesimo punto
di vista universale. La contrattazione reale è esclusa perché
si adotta l'espediente di rimuovere tutte le differenze ingombranti, che
richiederebbero una discussione politica. E così risulta impossibile
articolare il problema dell'oppressione, che secondo la Young si manifesta
come sfruttamento, marginalizzazione, mancanza di potere, imperialismo
culturale e violenza.
Allo scopo di tematizzare questo problema, occorre introdurre nell'analisi
un'altra dramatis persona: il gruppo. Per gruppo sociale
la Young intende una collettività di persone che si differenzia
da almeno un altro gruppo per forme culturali, pratiche o modi di vivere.
Gli appartenenti a un gruppo hanno una specifica affinità reciproca
dovuta al fatto di avere esperienze o modi di vita simili - affinità
che li induce ad associarsi fra loro, più che con quelli che non
si identificano con questi aspetti. I gruppi sono espressioni delle relazioni
sociali, ed esistono soltanto in relazione reciproca. I caratteri
fondamentali del gruppo sono la sua preesistenza rispetto ai suoi membri,
i quali si formano, come tali, in esso, e il senso di identità che
fa sì che questi si riconoscano in esso. I gruppi non vanno trattati
come sostanze, bensì come funzioni delle relazioni sociali e interindividuali,
e hanno una duplice utilità teorica: in primo luogo, possono essere
visti come portatori di quelle differenze che la logica dell'identità
tende ad annullare, e in secondo luogo possono servire a mettere in luce
l'oppressione nelle sue molteplici facce. Ad esempio, prendere coscienza
della differenza di genere e trattare le donne come un gruppo può
porre in evidenza gli aspetti oppressivi di certe pratiche quotidiane che
hanno ad oggetto le donne. Pertanto, i gruppi non sono solo strumenti
analitici, ma devono avere anche un significato politico: secondo la Young,
la democrazia partecipativa richiede, per i gruppi oppressi, una rappresentanza
corporativa. La rappresentanza per gruppi serve a massimizzare la dimensione
partecipativa, dando a tutti un'equa possibilità di far sentire
la loro voce e smascherando l'illusione universalistica che esista un omogeneo
pubblico di cittadini (cap. VI).
La Young sottolinea con molta cura che i gruppi non sono sostanze
non sono, cioè, organismi entro i quali gli individui sono riducibili
a cellule. Ed è indiscutibile la loro utilità analitica per
mettere in luce i poteri e le relazioni informali che si annidano nella
società. Ma consegnare la rappresentanza politica a costrutti che
si basano sul senso d'identità, non rischia di replicare, entro
ciascun gruppo, quella trappola dell'identità che la Young denuncia
efficacemente come falso universalismo? Un conto è usare un
costrutto funzionalmente, come strumento di analisi; un altro è
trasformarlo in soggetto corporativo di rappresentanza politica, in base
alla motivazione che non "esiste" un pubblico omogeneo, ma una pluralità
di gruppi portatori di differenze. Se la motivazione è questa, è
difficile negare che i gruppi, sul piano pratico, vengono trattati come
sostanze dotate di una loro identità, tanto da rendere ingannevole
la rappresentanza politica di tipo universalistico. Ed è altrettanto
difficile evitare il pericolo che, entro i gruppi differenti, si ripeta
distributivamente l'oppressione delle rispettive logiche dell'identità.
A questa difficoltà ne è connessa un'altra: la Young
è fautrice di una proposta di democrazia partecipativa, legata ad
un ideale di giustizia come abilitazione (cap. II), cioè di effettivo
e libero sviluppo delle capacità individuali, contro ogni forma
di oppressione sociale. Ma a che cosa serve questa abilitazione? A conservare
alcune differenze, o a garantire ad ognuno la possibilità di una
libera autodeterminazione? Se si scegliesse il primo corno del dilemma,
ci sarebbe poco spazio per porre politicamente il problema dell'oppressione:
anche società gerarchiche o addirittura castali riescono a garantire,
funzionalisticamente, gli spazi delle diversita', adottando eventualmente
l'espediente della rappresentanza differenziata (si pensi, per esempio,
ai parlamenti medioevali). Ma se si sceglie il secondo, che è più
in armonia collo spirito democratico della Young, non possiamo fare a meno
di chiedere che cosa mai renda diverso il modello di cittadino politicizzato
e partecipe proposto dall'autrice da un illuministico ideale unitario di
soggetto morale, le cui differenze meritano di essere valorizzate solo
se prodotto di una scelta, e non se frutto cristallizzato di una condizione
oppressiva.
Maria Chiara Pievatolo
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