Bollettino telematico di filosofia politica
Il labirinto della cattedrale di Chartres
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Ultimo aggiornamento 26 aprile 2002


Benjamin Constant
teorico della modernità politica


1. Premessa
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Nonostante la singolare sfortuna della sua opera – studiata poco e male almeno sino a venti anni fa, e tuttora in gran parte sconosciuta al pubblico dei non addetti ai lavori1 - Benjamin Constant è senza dubbio un pensatore politico di prima grandezza e uno dei principali classici del liberalismo moderno. La sua vicenda intellettuale si colloca in quello straordinario periodo di evoluzione storica, politica e culturale che va dalla Rivoluzione del 1789 a quella del 1830: un periodo nel quale possiamo rintracciare il luogo d'origine della nostra identità politica e istituzionale. I princìpi, le ideologie, l'architettura istituzionale e persino il lessico dei nostri sistemi politici sono nati allora e tali sono sostanzialmente rimasti. Noi parliamo ancora il linguaggio inventato dalla Rivoluzione francese e ci muoviamo ancora (tanto più dopo la fine del "secolo breve") nello 'spazio politico' creato dai protagonisti di quegli eventi: si pensi soltanto alla distinzione tra destra e sinistra (che, pur con tutti i suoi limiti, continua ad essere la bussola con la quale ci orientiamo nel paesaggio politico) o al riemergere del discrimine tra liberali e democratici. Degli eventi della Rivoluzione francese e di quelli che da essa scaturirono nei decenni seguenti Constant fu protagonista, intrecciando in modo indissolubile la propria riflessione teorica con la partecipazione alle vicende storico-politiche del Direttorio e della Restaurazione; nel suo caso appare quindi necessario partire da una breve ricostruzione della vicenda storico-biografica.


2. La vicenda storico-biografica
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Nato nel 1767 a Losanna, in Svizzera, da un'antica famiglia protestante di origini francesi, e morto a Parigi nel 1830, pochi mesi dopo la Rivoluzione orleanista, Constant si rivelerà uno dei protagonisti più irrequieti e controversi di quella generazione dell'intelligencija europea che visse la propria giovinezza negli anni tumultuosi della Rivoluzione; maturò le proprie convinzioni più profonde durante il dominio napoleonico e pubblicò le proprie opere principali nel periodo della Restaurazione. Egli, tuttavia, a differenza di alcuni pensatori a lui contemporanei - come Hegel, per citare solo un esempio - non si limitò a seguire con grande passione gli straordinari eventi storico-politici di quegli anni e a sviluppare su di essi una profonda meditazione, ma vi prese parte direttamente e attivamente, tanto con i suoi pamphlets e scritti vari, quanto con la sua azione politico-parlamentare.

Quando approda definitivamente a Parigi, nel 1795, Constant, che ha appena 28 anni, ha già alle spalle un lungo ed errabondo itinerario formativo, che lo ha visto studiare nelle Università di Oxford, Erlangen ed Edimburgo. Ma, quel che più conta, egli ha conosciuto e stabilito un'intensa relazione intellettuale - che diverrà anche una tormentata relazione sentimentale - con Madame de Staλl, figlia dell'ultimo ministro liberale di Luigi XVI, il banchiere ginevrino Jacques Necker. Ed è proprio insieme alla figlia dell'ex-ministro che Constant, nella residenza di Coppet, ha potuto discutere i grandi problemi politico-istituzionali lasciati aperti dalla Rivoluzione, manifestando un'adesione per i princìpi liberali dell'89 che non rinnegherà mai. Quando giunge a Parigi, tuttavia, l'eredità dell'89 è ad uno dei bivi più drammatici. Dalla congiura di Termidoro (che ha posto fine, nel luglio del 1794, al regime terroristico di Robespierre) è passato poco meno di un anno e la nuova maggioranza parlamentare sta faticosamente tentando di varare una nuova costituzione (che andrà in vigore nell'ottobre del 1795 e sarà caratterizzata dalla presenza di un esecutivo più forte, il Direttorio).
L'obiettivo fondamentale del progetto termidoriano è consentire la nascita di un sistema politico fondato sulla legalità costituzionale e sul sistema rappresentativo. Contro tale esito si battono con forza, da bande opposte, gli eredi di due tradizioni politiche che Constant collocherà provocatoriamente (ma lucidamente) sullo stesso piano: da un lato, la sinistra giacobina, che vede nel progetto termidoriano la fine della 'democrazia pura', ossia di quel regime - lontano progenitore delle democrazie totalitarie novecentesche - fondato sulla mobilitazione permanente delle sezioni e dei clubs, la cui volontà, priva di limiti, veniva miticamente identificata con la volontà popolare, dall'altro lato, la destra monarchica più retriva, che mira semplicemente a restaurare l'assolutismo regio dell'Ancien Régime. In questo quadro, Constant si schiera apertamente con il Direttorio, nella convinzione che questo rappresenti, in quelle determinate circostanze, l'unico strumento per realizzare i principi di libertà proclamati dall'89.

Ma nei vibranti pamphlets del periodo direttoriale2 non troviamo soltanto brillanti argomentazioni legate alle situazione politica contingente; in essi già si affacciano temi di grande rilievo teorico. Basti pensare all'interpretazione della Rivoluzione e del Terrore, che ispirerà gran parte della storiografia liberale dell'800. Sulla base di una concezione della storia che assegna alla dimensione etico-ideale un ruolo primario3, Constant sostiene che le rivoluzioni si producono là dove si è rotto l'equilibrio tra le istituzioni di un popolo e le sue idee, le sue aspirazioni. Ciò significa che le rivoluzioni costituiscono il 'sintomo' e, al tempo stesso, la 'cura' di tale squilibrio; ma se esse vanno al di là dei loro obiettivi, si produce un nuovo e opposto squilibrio, una sorta di 'degenerazione patologica' del movimento rivoluzionario, la cui conseguenza più evidente è lo svilupparsi della reazione. Ora, secondo questa concezione, il Terrore non costituisce, come pensano gli scrittori controrivoluzionari, la nefasta e inevitabile conseguenza dei princìpi dell'89, né - come teorizzano alcuni scrittori filorivoluzionari - lo strumento terribile ma storicamente necessario per salvare la Rivoluzione, bensì soltanto una degenerazione patologica, scaturita da un'altra Rivoluzione, che non rispondeva alle reali aspirazioni dei Francesi e che ha determinato lo svilupparsi della reazione.

Mentre la Rivoluzione dell'89 nasceva dal bisogno tipicamente moderno di indipendenza individuale, eguaglianza civile e libertà politica, la Rivoluzione del '93 affondava le sue radici nell'aspirazione ad un'eguaglianza forzata e livellatrice e ad un modello politico (quello roussoviano) anacronistico e liberticida. Tra le due Rivoluzioni non si dà, secondo Constant, parentela alcuna. Del resto, fin dalle pagine iniziali del suo primo pamphlet, Constant ha disegnato una mappa etico-politica nella quale trovano posto soltanto due schieramenti: da un lato quello della libertà e dell'ordine, ispirato ad una concezione limitata e legale del potere, dall'altro quello dell'anarchia e del dispotismo, varianti opposte di un unico fenomeno, quel potere arbitrario che scaturisce inevitabilmente da una sovranità concepita come illimitata (che poi tale sovranità sia esercitata dal re o da una minoranza che si identifica miticamente con il popolo, cambia poco).

Ma la lotta di Constant perché la rivoluzione si concluda, realizzando quelli che sono i suoi autentici princìpi, terminerà con una sconfitta. La Repubblica direttoriale crolla definitivamente il 18 brumaio 1799, quando un ennesimo ma decisivo colpo di mano, ideato da Sieyès per rafforzare l'esecutivo, spiana la strada all'avventura napoleonica. Ancora una volta il giovane teorico liberale segue gli eventi da vicino. Egli si trova infatti a Saint-Cloud, dove gli autori del colpo di Stato hanno fatto trasferire, per sicurezza, il Parlamento. Alle sette di sera già circolano le voci sulle decisioni che verranno prese di lì a poco: sostanziale esautorazione del legislativo e conferimento delle funzioni esecutive ad una commissione composta da Sieyès, Ducos e Bonaparte. Constant prende carta e penna e scrive a Sieyès, protestando contro lo scioglimento del legislativo, nella convinzione che solo quest'ultimo potrà costituire un argine contro le fortissime ambizioni di Napoleone. Il colpo d'occhio di Constant non potrebbe essere più rapido e lungimirante; ma, ancora una volta, le sue parole cadranno nel vuoto. Negli anni che seguono egli riuscirà a trovare posto nel Tribunato, l'unico organismo costituzionale nel quale sopravviva una parvenza di libertà; di qui svilupperà, in nome delle libertà individuali, una limpida battaglia di opposizione, che gli costerà, nel 1802, l'estromissione dal Tribunato e l'improvvisa fine della sua carriera parlamentare.

Con l'uscita di scena dal Tribunato, la vicenda di Constant perde la sua aderenza diretta alle vicende storiche e politiche. Il ritorno ad una vita privata - una sorta di esilio - non coinciderà tuttavia con una fase di lungo silenzio, interrotto, come si è a lungo pensato, soltanto dai suoi lavori letterari. Certo: Constant, durante il lungo periodo che va dal 1802 al 1813, partecipa alle attività del circolo di Coppet, scrive il romanzo che lo renderà celebre come letterato (l'Adolphe), riprende i suoi amati studi sulle religioni e viaggia per la Germania, conoscendo Goethe, Schiller e Schelling. Ma, in realtà, questi sono gli anni forse più fruttuosi anche per il suo pensiero politico: tra il 1800 e il 1806, infatti, egli elabora una compiuta dottrina politica e costituzionale, che rimarrà consegnata a due poderosi trattati – i Principes de politique applicables à tous les gouvernements e i Fragments sur la possibilité d'une constitution républicaine dans un grand pays, rimasti inediti per ovvie ragioni politiche e tornati alla luce soltanto quarant'anni fa.

Gli anni dell'esilio si chiudono, per Constant, così come si erano aperti: nel segno di Napoleone. Se l'estromissione dal Tribunato era stata infatti determinata dal crescente dispotismo del Primo Console, sarà la sconfitta dell'Imperatore a segnare il ritorno di Constant alla politica attiva. Dopo la battaglia di Lipsia (1813), Constant pubblica De l'esprit de conquête e de l'usurpation, un brillante libello antinapoleonico che gli dà larga fama e con il quale egli rientra sulla scena pubblica. Negli anni della Restaurazione - al di là della clamorosa vicenda dei Cento Giorni, quando Constant accetta di redigere, proprio su incarico di Napoleone, la Costituzione che avrebbe dovuto liberalizzare l'Impero - egli sarà il protagonista di una lotta ininterrotta, nel nuovo quadro della monarchia costituzionale, per la difesa dei princìpi e degli istituti liberali, sia dai banchi del Parlamento (dove guiderà l'opposizione liberale), sia attraverso le opere che, estratte in gran parte dagli inediti del periodo dell'esilio, verrà pubblicando dal 1814 in poi. Tra le più famose ricordiamo i Princìpes de politique (1815), il Cours de politique constitutionnelle (1818-1820) e il Commentaire sur l'ouvrage de Filangieri (1822-1824).

Nel luglio del 1830, sebbene vecchio e ammalato, Constant partecipa agli eventi rivoluzionari, redigendo una dichiarazione in favore di Luigi Filippo e aprendo, in barella, il corteo insurrezionale. Morirà pochi mesi dopo. Constant fu un protagonista di primo piano delle straordinarie vicende storico-politiche e culturali di quegli anni. Se l'espressione non fosse abusata, verrebbe voglia di definirlo il prototipo del 'filosofo militante', ossia di quel pensatore la cui riflessione si alimenta di passione civile e si intreccia con la vita politica nel suo senso più ampio e più alto.


3. Il pensiero politico-costituzionale:

  • la critica a Rousseau
  • libertà degli Antichi e libertà dei Moderni
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    Veniamo ora alla riflessione teorica di Constant. Non potendo restituirne, in questa sede, la complessa articolazione, mi soffermerò su tre punti particolarmente significativi: la critica a Rousseau, la celebre distinzione tra libertà antica e libertà moderna e la dottrina costituzionale (che tratterò nel paragrafo conclusivo).

    1. Nei Principes de politique del 1806 Constant distingue nettamente tra quelli che chiama i due princìpi di Rousseau sulla sovranità. Il primo stabilisce che "ogni autorità che governa una nazione deve emanare dalla volontà generale", cioè dall'intero corpo sociale; il secondo consiste nella esplicita riduzione delle clausole del Contratto sociale "a una sola, cioè all'alienazione completa di ogni associato, con tutti i suoi diritti, alla comunità". Tra questi due princìpi, afferma Constant, occorre fare una netta distinzione: il primo è "la più salutare delle verità, il secondo il più pericoloso degli errori".

    Vediamo perché. Il primo principio attribuisce legittimità soltanto a quel potere che deriva dalla società stessa, ossia che si fonda sul suo consenso. Si tratta, in buona sostanza, del principio della sovranità popolare, in virtù del quale 'titolare' del potere è la società nel suo complesso; ne consegue che può definirsi legittimo soltanto quel potere il quale venga esercitato sulla base di un esplicito mandato, conferito dagli individui che compongono la società. Sebbene Constant sia pienamente consapevole dello sfavore che circonda tale principio in quegli anni (la volontà generale richiamava infatti alla mente la terribile esperienza del giacobinismo e del Terrore), egli nondimeno si dichiara completamente d'accordo con Rousseau. A meno di non resuscitare la dottrina del diritto divino, afferma il teorico liberale, si dovrà convenire che esistono soltanto due fonti della sovranità, il consenso o la forza; e soltanto la prima, a suo parere, dà luogo ad un potere legittimo. Quindi, per quanto riguarda il problema della titolarità - 'chi' sia il sovrano legittimo - la posizione di Constant coincide con quella del ginevrino4.

    Passiamo ora al secondo principio di Rousseau. Esso prevede una cessione dei diritti individuali al sovrano addirittura più larga di quella proposta dall'assolutista Hobbes: se per quest'ultimo, infatti, gli individui conservavano almeno il diritto alla vita, per Rousseau la cessione dei diritti è totale, senza riserve. Qui Constant si dichiara in completo disaccordo con Rousseau: tale principio costituisce, a suo dire, "la giustificazione di ogni dispotismo", giacché il sovrano, in base ad esso, verrà a disporre di un potere illimitato: nessun diritto individuale potrà essere infatti invocato per limitare la sfera d'azione del sovrano. Eppure Rousseau aveva escluso che il suo modello comportasse rischi liberticidi: in primo luogo, argomentava il Ginevrino, perché la condizione (cioè la cessione totale dei diritti) è eguale per tutti, e quindi nessuno ha interesse a renderla onerosa per gli altri; in secondo luogo, perché tale cessione avviene nei confronti della comunità medesima, ragion per cui quei diritti che gli individui cedono in quanto 'privati' li riprendono in quanto 'cittadini', ossia in quanto membri perfettamente eguali di quel corpo collettivo che è il sovrano. E poiché il sovrano coincide con il corpo sociale, è evidente che esso non può nuocere né all'insieme dei suoi membri, né a qualcuno in particolare.

    A questa conclusione Constant rivolge una formidabile obiezione 'pratica': Rousseau dimentica, egli scrive, che tutte le garanzie offerte da quell'essere astratto che egli chiama il 'sovrano' sono dovute esclusivamente al fatto che esso si compone di tutti gli individui, senza eccezione alcuna. Ma non appena quel sovrano dovrà esercitare praticamente il suo potere, egli – dal momento che non può farlo in prima persona – sarà costretto a delegarlo a vari organi e, di conseguenza, tutte le garanzie cadranno. Il potere esercitato in nome di tutti sarà in realtà nelle mani di pochi: dunque non è vero, conclude Constant, che la condizione rimane eguale per tutti; così come non è vero che nessuno avrà interesse a renderla più onerosa per gli altri, dal momento che esisteranno cittadini i quali, di fatto, avranno più potere degli altri.
    Ma perché definire 'pratica' una simile obiezione? Perché con essa Constant non mette in discussione il principio stesso della cessione totale dei diritti individuali, bensì la sua realizzabilità pratica, ovverossia la costruzione di un sistema in cui i governanti coincidano con i governati (in sostanza, si tratta della democrazia diretta). La sua obiezione si basa su una lucida e realistica analisi delle società moderne, che si differenziano nettamente da quelle antiche. Mentre le prime, infatti, erano di dimensioni assai ristrette, prevedevano l'esistenza degli schiavi, si basavano essenzialmente sulla guerra e trascuravano il commercio, le seconde sono invece caratterizzate da una grande estensione territoriale, da una popolazione assai numerosa e dalla crescente tendenza a procurarsi le risorse necessarie attraverso il commercio, piuttosto che tramite la guerra; le società moderne, inoltre, grazie al progresso morale e culturale, non ammettono più la schiavitù, cosicché quasi tutti i cittadini sono costretti a lavorare; infine, sono caratterizzate da un intenso amore per l'indipendenza individuale. Tutte queste caratteristiche rendono semplicemente irrealizzabile la partecipazione diretta e costante di tutti gli individui all'esercizio della sovranità: il loro numero e le loro attività lavorative non lo permetterebbero comunque, e in ogni caso la loro 'mentalità' non li spinge in quella direzione. Ne consegue che, anche nelle società basate sul consenso, i governanti rimarranno distinti dai governati. Ma Rousseau è ben lontano dal realismo e dalla lucidità di cui dà prova Constant: egli ha in mente la polis antica, o meglio, quella versione idealizzata che ne fa un modello di società organica, coesa e compatta; un modello che sarà alla base anche delle riflessioni politiche di Hegel e di Marx, e che porterà tutti costoro ad avvertire come laceranti e negative (come 'scissioni' da superare) quelle distinzioni – tra società e Stato, tra individuo e cittadino, tra pubblico e privato – nelle quali Constant individuerà non solo il contrassegno della modernità, ma anche e soprattutto la garanzia delle sue molteplici libertà e del suo benessere.

    Ma torniamo all'obiezione 'pratica': la tesi di Rousseau (che sarà poi ripresa dai democratici dell'Ottocento) – appartenendo a tutti, il potere non potrà abusare contro alcuno – cade nel momento della sua traduzione in pratica, perché di fatto il potere viene sempre esercitato da pochi (i parlamentari, i ministri, i vari funzionari dell'amministrazione pubblica). Ne consegue che anche nelle società democratiche rimane in piedi la necessità di un sistema di garanzie che protegga i cittadini dai possibili abusi del potere. Se tali garanzie vengono a mancare, i rischi sono immensi: da un lato, i singoli individui si trovano sottomessi senza riserve alla volontà generale; dall'altro, la volontà generale finisce per coincidere con la volontà di quei pochi che detengono il potere. Si produce così una 'beatificazione' del potere sovrano, che rende il 'dispotismo democratico', che si ammanta della legittimazione popolare, ben più pericoloso del 'dispotismo autocratico'.
    Ma la critica constantiana a Rousseau non si ferma all'obiezione 'pratica': il modello teorizzato dal Ginevrino è considerato pericoloso da Constant non solo perché la democrazia pura e diretta è praticamente irrealizzabile, ma anche (e soprattutto) perché, qualora lo fosse, sarebbe il peggiore dei dispotismi. Per comprendere l'argomentazione constantiana occorre rifarsi alla sua celebre distinzione tra libertà antica e libertà moderna.

    2. Che cosa intende oggi per libertà – si chiede Constant nel famoso Discorso sulla libertà degli antichi comparata a quella dei moderni (1819) – un inglese, un francese, un abitante degli Stati Uniti d'America? Egli intende:

    il diritto di ciascuno di non essere sottoposto che alle leggi, di non poter essere né arrestato, né detenuto, né messo a morte, né maltrattato in alcun modo a causa dell'arbitrio di uno o più individui. Il diritto di ciascuno di dire la sua opinione, di scegliere la sua industria e di esercitarla, di disporre della sua proprietà e anche di abusarne; di andare, di venire senza doverne ottenere il permesso e senza rendere conto delle proprie intenzioni e della propria condotta. Il diritto di riunirsi con altri individui sia per conferire sui propri interessi, sia per professare il culto che egli e i suoi associati preferiscono, sia semplicemente per occupare le sue giornate o le sue ore nel modo più conforme alle sue inclinazioni, alle sue fantasie. Il diritto, infine, di ciascuno di influire sulla amministrazione del governo, sia nominando tutti o alcuni dei funzionari, sia mediante rimostranze, petizioni, richieste che l'autorità sia più o meno obbligata a prendere in considerazione.

    La libertà dei Moderni coincide dunque in larga parte con i diritti individuali di libertà: libertà di pensiero, libertà religiosa, libertà economica, libertà di movimento, libertà di associazione, garanzie giudiziarie. Tali libertà conferiscono agli individui, su ognuna di quelle materie, la facoltà di fare o di non fare, ossia la libertà di agire a proprio talento, senza che lo Stato li possa ostacolare, né con divieti né con comandi. Ognuno di noi, ad esempio, è libero di riconoscersi (o non riconoscersi) in una qualsiasi religione, oppure di disconoscerle tutte; lo Stato non ha comunque voce in capitolo, se non quella di tutelare le nostre scelte individuali e di impedire che esse possano ledere i diritti altrui. La libertà coincide, in questo caso, con una condizione di indipendenza individuale dal potere, con uno spazio privo di norme imperative, libero da ostacoli, vuoto: sta a noi usarlo come meglio crediamo. A questo insieme di libertà civili (dette anche libertà 'negative' o libertà 'private'), che costituiscono il cuore della libertà moderna, si aggiunge poi la libertà politica (detta anche libertà 'positiva' o 'pubblica'), che consiste nella possibilità di prendere parte alle decisioni collettive, in genere tramite l'elezione di rappresentanti. La libertà degli Antichi, secondo Constant, era invece una cosa ben diversa: essa consisteva

    nell'esercitare collettivamente, ma direttamente, molte funzioni della sovranità, nel deliberare sulla piazza pubblica sulla guerra e sulla pace, nel concludere con gli stranieri i trattati di alleanza, nel votare le leggi, nel pronunciare giudizi; nell'esaminare i conti, la gestione dei magistrati, nel farli comparire dinanzi a tutto il popolo, nel metterli sotto accusa, nel condannarli o assolverli.

    Si trattava quindi di una libertà esclusivamente pubblica, consistente nel partecipare direttamente alle decisioni dello Stato. E poiché tali decisioni venivano prese con il concorso di tutti, gli individui – in quanto cittadini – erano liberi; come privati, tuttavia, essi non possedevano alcuna libertà, perché la sovranità collettiva non riconosceva alcun limite alla propria giurisdizione. La libertà di cui godevano gli Antichi, in quanto cittadini, poteva dunque andare di pari passo con il totale asservimento degli individui.
    Ed è precisamente questa la libertà teorizzata da Rousseau: è una libertà che si identifica con l'autonomia del corpo collettivo, laddove la libertà moderna, secondo Constant, è in larga parte una condizione di indipendenza individuale. Apparentemente si tratta soltanto di due diverse forme di autodeterminazione (e quindi di libertà): con la prima siamo liberi perché, direbbe Rousseau, obbediamo alle leggi che noi stessi ci siamo dati; con la seconda siamo liberi perché, spiegherebbe Constant, nessuno può ostacolare le nostre scelte individuali. Rimane tuttavia una differenza: mentre la libertà antica, riproposta da Rousseau, è una forma di autodeterminazione collettiva, quella moderna, difesa da Constant, è una forma di autodeterminazione individuale. E non è una differenza di poco conto. Risulta evidente, infatti, che nelle decisioni collettive si formano inevitabilmente una maggioranza e una minoranza; e quando non facciamo parte della prima, noi non obbediamo affatto a noi stessi, ma alla maggioranza. O meglio, a quella minoranza che esercita il potere in nome della maggioranza. Ecco perché la democrazia pura, che non attribuisce ai cittadini nessuna garanzia in quanto individui, è il peggiore dei dispotismi: perché ciò che nessun tiranno oserebbe fare in suo nome, dice Constant, i governanti democratici lo possono imporre nel nome del popolo.
    Il contrasto di fondo che oppone Constant a Rousseau riguarda dunque il modo stesso di concepire la libertà: la libertà autentica, secondo Constant, non è quella teorizzata dal Ginevrino, ma quella di cui godono i Moderni. Essa consiste in un'ampia sfera di indipendenza individuale, nella quale il potere non ha il diritto di intervenire e che anzi ha il dovere di tutelare. Viceversa, nella società teorizzata da Rousseau le autodeterminazioni collettive (le leggi adottate dal corpo sovrano) sostituiscono totalmente le autodeterminazioni individuali. Non esistono infatti libertà individuali, ma solo libertà collettive. Il corpo collettivo – ossia, il potere dello Stato – può occuparsi di tutto: le leggi possono estendersi a qualsiasi aspetto della realtà, senza incontrare alcun ostacolo. La società allora, in quanto corpo collettivo, sarà totalmente sovrana; ma gli individui, in quanto singoli, saranno totalmente asserviti. È questa la libertà che Rousseau e i giacobini hanno proposto alla Francia: una libertà anacronistica, che la Francia non poteva volere e contro la quale si è rivoltata. La libertà dei Moderni, ci dice Constant, è ben diversa: essa consiste in un'ampia sfera di indipendenza individuale, combinata – e non sostituita! – con la libertà politica (beninteso, esercitata tramite la forma rappresentativa). I moderni non vogliono tutele soffocanti o, quel che è peggio, liberticide. La conclusione di Constant è inequivocabile: "la libertà individuale, lo ripeto, ecco la vera libertà moderna".
    Attenzione, però. Ciò non significa che Constant intenda rinunciare alla libertà politica; egli infatti aggiunge subito dopo: "La libertà politica ne è [della libertà individuale] garanzia; la libertà politica è quindi indispensabile". Qui Constant esprime con particolare chiarezza il senso della sua posizione: le libertà civili si devono combinare con la libertà politica, giacché soltanto quest'ultima ci consente di controllare il potere, che tende sempre ad abusare delle sue prerogative; ed il potere, in questa sua tendenza, può trovare un alleato nell'eccesso di privatismo che caratterizza i moderni.

    Il pericolo della libertà moderna - scrive Constant, sempre nel Discorso - è che, assorbiti nel godimento della nostra indipendenza individuale e nel perseguimento dei nostri interessi particolari, noi possiamo rinunciare troppo facilmente al nostro diritto a partecipare al potere politico.

    Quindi quello di Constant non è un liberalismo angustamente privatistico, come spesso è stato ritenuto (e non solo dalla critica marxista); è viceversa un liberalismo cosciente dei rischi insiti nel privatismo dei moderni e consapevole del ruolo insostituibile della partecipazione politica. Ciò non consente, tuttavia, di sostenere che Constant sia un democratico: non solo e non tanto perché egli sia contrario al suffragio universale (che del resto nessuno proponeva, in quegli anni), ma perché le libertà politiche rappresentano, nel suo pensiero, lo strumento per garantire le libertà civili; le prime sono un mezzo, le seconde un fine. Nella migliore delle ipotesi, si potrebbe sostenere che Constant sia un pensatore liberal-democratico, giacché ha compreso che libertà civili e libertà politiche, indipendenza e partecipazione, devono essere combinate, in quanto la totale politicizzazione dell'esistenza, così come la sua privatizzazione integrale, costituiscono pericoli opposti ma simmetrici al mantenimento della libertà dell'uomo. Ma per sostenere che Constant sia un liberal-democratico bisogna assumere che la democrazia sia soltanto il prolungamento e il perfezionamento quantitativo del liberalismo, cioè che essa non abbia fatto che universalizzare, quando la situazione storica lo ha consentito, quei diritti politici che, insieme ai diritti civili, il liberalismo aveva già parzialmente realizzato con il sistema censitario. Tale interpretazione è sicuramente legittima, ma è pur vero che essa non rende ragione del lungo conflitto che ha opposto liberali e democratici nel corso dell'Ottocento, né delle differenze teoriche e assiologiche che tuttora distinguono la tradizione liberale da quella democratica; infine, in essa non si potrà sicuramente riconoscere tutta la tradizione democratica e, in particolare, le sue componenti più pure o radicali.

    Come abbiamo visto, l'errore di fondo che Constant attribuisce a Rousseau è quello di aver impostato il problema della legittimità del potere esclusivamente in termini di titolarità (chi è il legittimo titolare del potere politico?), trascurando completamente la questione dell'estensione (a prescindere da chi lo detenga, quanto ampio deve essere il potere politico?). La delimitazione a priori della sfera d'azione del potere – con la correlativa istituzione di un'ampia sfera di diritti individuali – costituisce dunque il primo e irrinunciabile passo per garantire la libertà. Senza questa limitazione fondamentale, anche le tecniche costituzionali, afferma Constant, diventano inutili: si ha un bel dividere il potere, nel senso di assegnarlo ad organi diversi; se la sua somma totale è illimitata, la libertà è persa. Dunque Constant è convinto che la garanzia fondamentale della libertà risieda nella limitazione materiale del potere, la quale è a sua volta garantita dallo spirito pubblico e dalla libertà di stampa. Ma compiuto questo primo fondamentale passo, è certamente indispensabile procedere all'individuazione di un sistema di forme legali che regoli la struttura e l'esercizio del potere (limitazione formale).


    4. La dottrina costituzionale
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    I punti salienti del costituzionalismo constantiano sono la teorizzazione del potere neutro e preservatore, la forte impronta garantista (nel duplice aspetto dell'indipendenza della magistratura e delle garanzie giudiziarie) e l'insistenza sull'importanza del potere municipale (e dunque di forti autonomie locali).
    Prima di addentrarci nell'esame del sistema costituzionale non resta che fare cenno all'evoluzione del suo autore, che da repubblicano divenne monarchico. Come è stato opportunamente osservato, tale cambiamento non implica questioni di principio, ma si risolve in una questione essenzialmente tecnica. Constant concepisce la dottrina costituzionale come una 'dottrina dei mezzi', rispetto a quei 'fini' che vengono individuati dalla teoria politica. Ora, circa i fini della politica Constant non ha mai cambiato idea, dagli anni del Direttorio a quelli della Restaurazione; non a caso, nel 1815, quando dà alle stampe i Princìpi di politica, egli scrive:

    spesso, nelle ricerche che vado pubblicando, si ritroveranno non soltanto le stesse idee, ma le stesse parole di miei precedenti scritti. Presto saranno venti anni che mi occupo di considerazioni politiche e ho sempre professato le stesse opinioni, formulato i medesimi voti. Allora domandavo la libertà individuale, la libertà della stampa, l'assenza di arbitrio, il rispetto per i diritti di tutti. È ciò che reclamo oggi con zelo non minore e con più grande speranza.

    Ma non è soltanto sul piano dei princìpi politici che si può riscontrare una indiscutibile coerenza. Anche sul piano dei mezzi costituzionali si dà una sostanziale continuità: i princìpi ispiratori e l'architettura complessiva del costituzionalismo constantiano rimangono infatti immutati, sia nella versione repubblicana (sino al 1803), sia in quella monarchica (nel 1814-15). In breve: il passaggio dalla forma repubblicana a quello monarchica nasce dall'adattamento dei mezzi alle circostanze storiche e politiche. Dopo il 1814 Constant è convinto che la soluzione monarchico-costituzionale rappresenti l'unica strada, nella Francia della Restaurazione, per conciliare libertà e stabilità.

    Veniamo all'assetto dello Stato constantiano, che vede il potere sovrano suddiviso in cinque poteri. In primo luogo, abbiamo il potere neutro e preservatore, che nella fase repubblicana veniva attribuito ad un organo costituito ad hoc (il pouvoir neutre et preservateur), mentre nella fase monarchica viene attribuito al re. Si tratta di uno dei tratti più originali del costituzionalismo constantiano: il potere preservatore ha lo scopo di intervenire, quale supremo garante dell'organismo costituzionale, ogni volta che quest'ultimo è minacciato dal conflitto tra i poteri attivi (ossia, tra l'esecutivo e il legislativo). Le ragioni che spingono Constant a escogitare tale istituto – modellato sulle funzioni arbitrali del monarca costituzionale inglese – vanno collocate nella tormentata vicenda rivoluzionaria della Francia: dopo l'89, infatti, la Francia era andata incontro ad una serie impressionante di fallimenti costituzionali, tutti derivanti dal fatto che il legislativo e l'esecutivo si erano svincolati, a turno, dai loro limiti, finendo per distruggere le garanzie costituzionali. Così era avvenuto con la Convenzione egemonizzata da Robespierre, e così si era ripetuto con il Direttorio di Barras, sino a culminare nel dispotismo napoleonico. Il potere preservatore è chiamato a risolvere questi problemi, ossia a svolgere la funzione di giudice supremo degli altri poteri: quando questi entrano in un contrasto irrimediabile il potere preservatore interviene, ricorrendo alle temibili armi dello scioglimento (del legislativo) o della destituzione (dell'esecutivo). Ma per assolvere un simile compito, esso deve avere caratteristiche che gli consentano di essere realmente imparziale, ossia egualmente distante dagli interessi dell'esecutivo come da quelli del legislativo. È a questo scopo che Constant lo qualifica come potere neutro, ossia non-attivo; ciò significa che in nessun caso esso potrà sostituirsi – esercitando in modo vicario funzioni legislative o esecutive – ai due poteri che deve giudicare. E significa altresì che i suoi provvedimenti saranno esclusivamente politici: ad essi non dovrà seguire l'irrogazione di alcuna pena.

    Se nella fase repubblicana la terzietà ed indipendenza del potere preservatore veniva garantita da un complesso congegno di meccanismi istituzionali, nella fase monarchica esso verrà affidato semplicemente al monarca, il quale, in virtù del carattere ereditario e in qualche modo 'sacrale' della sua carica, è superiore altri poteri ed equidistante rispetto ad essi. Ciò implica, come è facile intuire, che nel costituzionalismo constantiano il potere del re sarà soltanto un potere neutro e che pertanto il monarca non eserciterà direttamente né funzioni esecutive, né funzioni legislative. Esso costituirà il punto di equilibrio sul quale poggia l'intero sistema, impedendo che questo degeneri in forme arbitrarie, siano queste di tipo assembleare o governativo.

    Al potere legislativo (definito 'rappresentativo') Constant riconosce un ruolo cruciale: nessuna libertà può esistere in un grande paese, egli afferma, senza assemblee forti, numerose e indipendenti. Nella fase monarchica tale potere si scinde in due rami: il potere rappresentativo durevole (la Camera alta, di tipo ereditario) e il potere rappresentativo dell'opinione (la Camera bassa, di tipo elettivo).
    L'istituzione della Camera ereditaria è resa necessaria dall'esistenza del monarca ereditario: in un paese che respinga ogni distinzione di nascita non si potrebbe certo accettare che la suprema carica dello Stato sia ereditaria. La monarchia ne verrebbe quindi indebolita, e ciò sarebbe esiziale per l'organismo costituzionale, visto il ruolo assegnatole di potere neutro e preservatore. Sotto questo punto di vista, quindi, la Camera ereditaria svolge una funzione difensiva nei confronti del potere reale; ma essa svolge, al tempo stesso, anche una funzione limitativa, dal momento che la carica di Pari, una volta assegnata, diventa ereditaria, e quindi fa sì che il membro della Camera alta entri in una condizione di effettiva indipendenza dal potere reale. Infine, la presenza di due Camere – l'una ereditaria, l'altra elettiva – dovrebbe garantire un equilibrio dinamico al sistema politico-costituzionale, consentendo l'incontro tra le esigenze di ordine e continuità e le istanze di trasformazione proprie di una civiltà in evoluzione.

    Il potere esecutivo è definito da Constant 'potere ministeriale', per sottolinearne la sua distinzione dal potere reale. Nella versione del 1815 esso viene nominato (ed eventualmente revocato) dal re ed esercita, sulla base della fiducia congiunta del monarca e della camere, le funzioni di governo. Fondamentale, in questo ambito, il principio della responsabilità dei ministri e dei funzionari inferiori, che Constant afferma con forza. I ministri possono essere accusati per tre motivi: per abuso del loro potere legale; per atti illegali pregiudizievoli all'interesse pubblico; per attentati contro la libertà. In quest'ultimo caso i ministri rientrano nella classe dei cittadini, e quindi devono essere giudicati dai tribunali ordinari; nei primi due casi, invece, essi devono rispondere ad un tribunale speciale, costituito dalla Camera dei Pari. Mettere sotto accusa dei ministri, infatti, è come intentare un processo tra il potere esecutivo e il potere del popolo; occorre pertanto individuare un giudice che abbia un interesse parimenti distinto da entrambi i contendenti, ed è precisamente quello che accade con la Camera ereditaria. Ma non è sufficiente aver istituito la responsabilità per i ministri; essa deve venire estesa a tutti i gradi della pubblica amministrazione. Se si punisce soltanto il ministro che dà una disposizione illegale e non il funzionario che la esegue, osserva Constant, si colloca la riparazione tanto in alto da non poterla spesso conseguire. I funzionari non possono invocare il principio dell'obbedienza, perché questa non può mai essere cieca; essi risponderanno pertanto dei loro errori di fronte ai tribunali ordinari.

    Quanto al potere giudiziario, esso – nella fase monarchica – viene nominato dal re e trova nel principio della inamovibilità la garanzia della propria indipendenza. Accanto ad esso, tuttavia, si devono prevedere pene severe per quei giudici che si allontanino, nell'esercizio delle loro funzioni, dall'osservanza delle leggi; inoltre per il cittadino deve sempre essere prevista la possibilità di appellarsi contro una sentenza.
    La concezione garantista di Constant si fonda infine su altri tre capisaldi: il sistema della giuria, l'affermazione dei diritti dei condannati e il rigoroso rispetto della forme legali. Il giurato, dice Constant, giudica come giudicherebbe il buon senso di ogni individuo, come giudicherebbe lo stesso accusato se non si trattasse di se stesso. Vale la pena di ricordare, sia pure per inciso, che per Constant il sistema della giuria contribuisce in modo fondamentale alla formazione di un'etica civile, perché chiama qualsiasi cittadino alla conoscenza delle leggi e dell'amministrazione pubblica e lo solleva alla considerazione dei princìpi che tutelano la sua libertà e la sua sicurezza. Per quanto riguarda i condannati, Constant sostiene che essi non devono vedere gravata arbitrariamente la propria pena: questa deve essere proporzionata alla colpa, priva di qualsiasi supplizio che leda la dignità umana e irrogata sulla base di leggi precedenti il delitto. Il diritto di grazia rappresenta infine l'ultima risorsa contro l'inevitabile inconveniente delle leggi, vale a dire il loro carattere generale e astratto, che non può prevedere le infinite sfumature della realtà. Quanto alle 'forme legali', Constant osserva come spesso si invochi la loro attenuazione o abolizione allegando il pretesto della sicurezza pubblica. Contro la tentazione ricorrente della 'giustizia sommaria', Constant adduce due argomenti fondamentali: in primo luogo, le forme legali sono una salvaguardia e dunque la loro soppressione equivale all'irrogazione di una pena; ma sottomettere l'accusato a questa pena è come punirlo prima di averlo giudicato. In secondo luogo, tali forme o sono necessarie o sono inutili: se sono inutili, si chiede Constant, perché conservarle nei processi ordinari? E se sono necessarie, perché privarsene nei processi più importanti?

    Quando si tratta di una colpa leggera e quando l'accusato non è minacciato nella vita o nell'onore - scrive Constant nei Principi di politicadel 1815- la sua causa viene istruita nel modo più solenne ... ma quando si tratta di un misfatto spaventoso, e quindi dell'infamia e della morte, si sopprimono d'un colpo tutte le garanzie! si chiude il codice delle leggi, si abbreviano le formalità! come se si pensasse che quanto più un'accusa è grave, tanto più sia superfluo esaminarla.

    L'ultimo pilastro dell'edificio costituzionale constantiano è il potere municipale, che consiste in sostanza in una articolata rete di poteri locali, ai quali vengono assegnate competenze amministrative sulla base di criteri territoriali. Vale la pena di sottolineare l'importanza di una simile innovazione, che precede di quasi cinquant'anni le ben più celebri riflessioni di Tocqueville sui pregi dell'autogoverno e sui difetti del centralismo amministrativo. Con l'istituzione di un potere locale, al quale vengono riconosciute sfere di autonoma competenza, Constant ha infatti tentato di impedire che la Francia fosse rinchiusa nella costrizione propria di una centralizzazione dalla quale essa uscirà, a fatica, solo alla fine del XX secolo.


    Note
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    1. Non tragga in inganno la recente pubblicazione, nel nostro paese, di alcuni testi constantiani. Si tratta o di testi minori, la maggior parte dei quali peraltro già editi, o di testi celeberrimi come il Discorso sulla libertà degli antichi e dei moderni, ovviamente già disponibile da anni in diverse edizioni. Rimangono invece inediti, in Italia, i grandi trattati del periodo consolare-imperiale, venuti alla luce ormai da quarant'anni e nei quali è contenuta la summa del pensiero politico e costituzionale di Constant. È invece vero che dal 1980, in coincidenza con il 150° anniversario della morte e con la pubblicazione dei Principes de politique del 1806, si è assistito ad una vera e propria rinascita degli studi constantiani, che ha interessato anche il nostro Paese. Per una ricostruzione analitica di tale rinascita, in Italia e all'estero, e per la discussione dei principali filoni interpretativi, rimando al mio La riscoperta di B. Constant (1980-1993): tra liberalismo e democrazia, apparso su "La Cultura", nn. 1 e 2, aprile e agosto 1997, pp. 145-174 e pp. 295-324 (con bibliografia).

    2. I più importanti sono il De la force du Gouvernement actuel de la France et de la nécessité de s'y rallier (1796), il Des réactions politique (1797), e il De la Terreur (1797). Per una lista completa degli scritti dell'età direttoriale rinvio alla bibliografia.

    3. Il dominio del mondo, scrive Constant nel De la force, "è stato affidato alle sole idee. Sono le idee che creano la forza, facendosi sentimento, passione, entusiasmo. Le idee si formano e si sviluppano nel silenzio, ma esse si incontrano e si accendono al contatto con gli individui. E così, completatesi e rafforzatesi reciprocamente, ben presto si scatenano con un impeto irresistibile".

    4. Si tratta di un aspetto da non sottovalutare. Si tenga presente che lo sfavore da cui era circondato il principio della sovranità popolare era tale, nei primi decenni dell'800, che persino pensatori liberali come i Doctrinaires cercarono una sorta di 'terza via' tra la sovranità popolare e il legittimismo monarchico, teorizzando la 'sovranità della ragione' o 'della costituzione'. Ciò detto, non vanno dimenticate due cose. La prima è che quando Constant parla di sovranità popolare pensa sempre ad un sistema rappresentativo su base censitaria (ma anche questo era del tutto normale, in un'epoca in cui il suffragio universale era stato caldeggiato dalla destra reazionaria per scardinare la fragile repubblica direttoriale e poi utilizzato da Napoleone per i suoi plebisciti); la seconda cosa è che la volontà generale di cui parla Constant è toto caelo diversa dalla volontà generale di Rousseau: la prima è la somma algebrica delle volontà particolari, la seconda è quella volontà organica e comunitaria che si produce solo grazie all'annullamento delle volontà particolari.


    Nota biografica
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    Bibliografia
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Il Bollettino telematico di filosofia politica è ospitato presso il Dipartimento di Scienze della politica della Facoltà di Scienze politiche dell'università di Pisa, e in mirror presso www.philosophica.org/bfp/



A cura di:
Brunella Casalini
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Nico De Federicis
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Maria Chiara Pievatolo

Progetto web
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Periodico elettronico
codice ISSN 1591-4305
Inizio pubblicazione on line:
2000


Il settore "Bibliografie" è curato da Nico De Federicis