Bollettino telematico di filosofia politica
Il labirinto della cattedrale di Chartres
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Ultimo aggiornamento 5 settembre 2002

Enrico Scoditti, La costituzione senza popolo. Unione europea e nazioni, con un saggio di Gianluigi Palombella, Dedalo, Bari, 2001, 243 pp.

L'Europa di fronte ad un bivio: è questo il tema centrale del volume di Enrico Scoditti, giudice presso il tribunale di Bari. Attraverso una discussione critica delle alternative istituzionali che si prospettano per l'Unione europea, le indica – e ci indica- un percorso evolutivo inedito, storicamente non ancora sperimentato ma estremamente stimolante.
Contro coloro che, adottando il duplice parametro "dell'unificazione politica e della democrazia rappresentativa", vedono nell'Europa una struttura politica immatura, sia per quanto riguarda le garanzie democratiche, sia per quanto riguarda i livelli di integrazione, Scoditti rivendica un'immagine dell'Unione come "unicum" e come "novum", esperimento istituzionale originale nel segno di un sovranazionalismo di tipo civile e non politico.
Sia l'immagine politica sia quella civile dell'Europa affondano le loro radici nell'atto costitutivo della Comunità europea del carbone e dell'acciaio (CECA), del 1951. Secondo la tesi politica dell' 'unità', è "necessario ed urgente conseguire livelli di integrazione sempre più profondi, fino alla completa unione politica". Nell'ottica della seconda tesi, quella civile della 'comunità', l'Unione europea dovrebbe formare piuttosto "un'arena neutrale in cui gli stati possono perseguire i loro obiettivi nazionali ma nell'ambito di un regime che mira ad addomesticare le ambizioni domestiche entro una disciplina sovranazionale" (p. 210). A spingere Scoditti in quest'ultima direzione ci sono – come lui stesso scrive - un bisogno e una preoccupazione. Il bisogno è quello di immaginare una sistemazione costituzionale nuova, che superi la vecchia alternativa tra metodo intergovernativo e federalismo, tra la via francese e la via tedesca all'Unione. La preoccupazione è che un sovranazionalismo di stampo politico renda prima o poi l'Europa prigioniera di una retorica di stampo veteronazionalistico e di una logica da superpotenza sullo sfondo di una competizione non improbabile con gli Stati Uniti.

Il libro ci offre un confronto serrato tra le due "visioni", e si propone di mostrare e di verificare di ciascuna di esse caratteri, limiti e interna coerenza; un vero e proprio viaggio concettuale alla ricerca di ciò che più rispecchia l' "anima profonda" dell'Europa ed è quindi in grado di segnare al meglio la strada della sua evoluzione.
L'Europa deve affrontare un problema storicamente nuovo: dare assetto istituzionale al multiculturalismo e all'interculturalismo come cifre distintive della postmodernità. Scoditti non condivide l'interpretazione di Bauman, secondo la quale per multiculturalismo si deve intendere l'assoluta assenza di radici, e la possibilità da parte dell'Io di costruire integralmente se stesso scegliendo tra le infinite opzioni culturali che gli vengono offerte. Sulla scia di Michael Walzer, ritiene piuttosto che il multiculturalismo debba essere inteso, contemporaneamente, sia come radicamento nella propria origine nazionale e culturale sia come apertura all'altro e al diverso. L'Europa rifletterebbe costitutivamente questa visione dialettica del multiculturalismo: essa è, infatti, "integrazione di nazioni stabilmente costituite, per le quali la voglia di diventare europei si bilancia perfettamente con quella di restare francesi o italiani" (p. 55). Il problema dell'Unione europea è allora: come coordinare istituzionalmente tante identità diverse in un orizzonte unitario? Si tratta, in altri termini, di 'ricontestualizzare' le identità nazionali esistenti in un tessuto di relazioni nuovo e più ampio che ne rispetti le specificità. Si tratta di valorizzare il carattere di novità dell'esperimento istituzionale europeo rispettando nello stesso tempo le culture e identità esistenti; e, all'inverso, si tratta di valorizzare l'esistente in un contesto istituzionale nuovo. Obiettivo dell'Unione è quello di "definire contesti istituzionali basati sulla divisione e la diversità" (p. 76).

Un primo accostamento, di tipo politico, alla questione europea è quello dell'euroscetticismo costituzionale. Prendendo atto della frammentazione etnico-culturale che contraddistingue il territorio dell'Unione e muovendo dal presupposto secondo cui "fondamento di uno stato democratico è l'omogeneità (pregiuridica) del popolo che ne costituisce il sostrato" approda ad una soluzione negativa: l'Europa non può, almeno per il momento, aspirare ad un assetto democratico-parlamentare perché sarebbe priva dell'unità culturale che ne costituirebbe l'imprescindibile presupposto. Si tratta della no demos thesis: "non c'è democrazia se non c'è popolo europeo" (p. 80). Ciò a cui si può per il momento aspirare è una forma di intergovernamentalismo. Il multiculturalismo viene visto in questo caso non come risorsa da valorizzare ma come ostacolo nel cammino verso quello che implicitamente si afferma come l'unico possibile destino per l'Europa: la democrazia, con il parlamentarismo e la sovranità popolare.

A questa visione risponde, rimanendo su un terreno politico, Habermas con il modello proceduralista, detto anche del patriottismo costituzionale: alla mancanza messa in luce dall'euroscetticismo si può far fronte creando un popolo europeo di tipo nuovo, la cui identità si basi, non su un comune patrimonio culturale, bensì sulla comune passione per le procedure democratiche, per la creazione di un sistema di diritti europei e per la parlamentarizzazione dell'Unione. Al problema che il multiculturalismo costituisce per la democrazia si risponde optando per la "programmatica assenza di legami prepolitici": cercando, cioè, di scindere cultura e democrazia (p. 92). I rischi che una soluzione del genere genera sono però consistenti. Innanzitutto, l'assenza di vincoli culturali predispone il sistema della disgregazione o, quantomeno, non è in grado di porre ostacoli ad eventuali secessioni. In secondo luogo, il proceduralismo democratico, nonostante il suo preteso neutralismo culturale, si fonda su un nucleo di valori forte che lo rendono soggetto ad esiti totalitari: la fede nella "libera disponibilità delle maggioranze sui diritti fondamentali esterni al processo democratico" (pp. 97-8) non garantisce alcuna forma di tutela per le minoranze.

Presupposto comune di queste soluzioni politiche alla questione europea è l'identificazione del destino dell'Unione nella sovranità popolare, nella democrazia e nel parlamentarismo: destino allo stato dei fatti utopico per l'euroscetticismo, obiettivo verso cui concretamente tendere per il proceduralismo. In entrambi i casi, comunque, si intende applicare all'Europa postmoderna il paradigma e il percorso istituzionale seguito dai moderni Stati nazionali: si "proietta sull'Unione la vicenda di edificazione dello stato democratico" (p. 102) come "monopolizzazione della forza" ed "espropriazione dei poteri locali" nella direzione di una centralizzazione politica. In questo modo, però, l'Europa, da campo di sperimentazione di percorsi istituzionali nuovi, diventa terreno di applicazione di forme costituzionali già viste che dell'Unione rischiano di soffocare la portata più autenticamente innovativa. L'unificazione europea diventa anzi, in quest'ottica, parte di un processo più ampio: "testa di ponte" di un "sistema di democrazia più globalizzato", di una "organizzazione cosmopolitica del pianeta basata sulla generalizzazione del sistema democratico" (p.180). E' l'ottica del cosmopolitismo giuridico.

La via politica all'Unione sembra contraddistinguersi per la retorica del "nuovo", della "rottura rivoluzionaria", per la volontà prometeica di costruire un nuovo popolo, un nuovo Stato, una nuova democrazia ed una nuova Costituzione dai confini sempre più ampi e sempre più onnicomprensivi. In realtà, se spostiamo l'attenzione dall'aggettivo "nuovo", alle parole alle quali quell'aggettivo si riferisce, e cioè "popolo", "Stato", "democrazia", "costituzione", ci troviamo di fronte i termini tradizionali della politica fatta nell'ottica e nella dimensione dei confini nazionali. La novità si riduce ad un questione di proporzioni quantitative e non ad un vero e proprio salto di qualità. Il portato di novità di una unificazione europea condotta secondo queste modalità e in vista di questi fini, poi, si ridimensiona ulteriormente se pensiamo al carattere omologante che caratterizza ogni processo di centralizzazione politica: del multiculturalismo non resta traccia, almeno non come risorsa da valorizzare anche sul piano istituzionale. Un'Europa come Stato nazionale centralizzato con una suo popolo unitario, "con tutta la retorica e la simbologia profonda che esso comporta (cittadinanza per nazionalità, difesa, politica estera)", minerebbe indiscutibilmente "l'etica del sovranazionalismo" poiché farebbe proprio "il motto dell'ideologia nazionalista, noi, gli europei, e gli altri, i non- europei" (p. 81).

Scoditti ci invita allora a fare un passo indietro: una risposta all'euroscetticismo costituzionale alternativa a quella del proceduralismo sta nell'affermare – come fa Weiler – che obiettivo dell'Unione europea non è quello di creare un nuovo demos come fondamento per un nuovo Stato di tipo nazionale. L'Europa ha, nella molteplicità di demoi che la compongono, e di cui l'euroscetticismo prende atto come di un limite, la sua ricchezza, da rispettare e da mettere positivamente a frutto anche in sede istituzionale. Da questo punto di vista si tratta, in primo luogo, di vedere nella cittadinanza europea non una semplice duplicazione su scala più ampia della cittadinanza nazionale, ma uno status di tipo diverso. L'appartenenza come "radicamento etnico-culturale" deve restare competenza esclusiva della cittadinanza nazionale, mentre la cittadinanza europea deve essere intesa come "complesso di diritti e doveri condiviso", proprio della "sfera razionale del demos civico" (pp. 80-1): il demos europeo è e deve restare "thin, in quanto esclusivamente civico e funzionale", mentre quello "etnico- culturale", "thick" spetta esclusivamente al demos nazionale.

Al paradigma di tipo rappresentativo, omologante e centralizzatore, si tratta poi di sostituire il paradigma madisoniano del sistema di competenze che si limitano e si controllano reciprocamente, delle "separated institutions sharing power" (p. 129). Il potere comune europeo verrebbe a configurarsi non come riproposizione su scala più ampia del potere statale ma come "regolatore sociale indipendente" (p. 132) che si sottrae ai tempi e ai ritmi brevi della legittimazione politica. Il suo ruolo sarebbe insomma quello di dar vita ad una "intensa politica regolativa" da affidare ad "agenzie indipendenti specializzate" (p. 134) di natura tecnica e non politica, libere "dagli effetti potenzialmente destabilizzanti dei cicli elettorali", in grado di elaborare linee e principi di condotta per strategie a lungo termine. L'indipendenza dalla politica, ossia dalle tradizionali forme di legittimazione democratica, sarebbe in questo caso una risorsa da coltivare poiché "l'esercizio di poteri indipendenti dalle preferenze della maggioranza rappresenta per le minoranze una garanzia più efficace dei circuiti della responsabilità elettiva" (p. 136): anche questo in nome della salvaguardia dei diritti e delle esigenze della pluralità di demoi di cui l'Unione strutturalmente si compone.

Ciò non significherebbe comunque sottrarre quelle agenzie indipendenti da ogni forma di controllo e da ogni prova di legittimazione. Significherebbe piuttosto allontanarsi dalla tradizionale forma di legittimità orientata all'input, che riposa cioè "sul parametro del 'governo da parte del popolo', secondo cui le scelte politiche rispecchiano la volontà di quest'ultimo", e che ha valore ed efficacia solo all'interno di confini nazionali. A questa si sostituirebbe una legittimazione orientata all'output, che pone l'accento sul "'governo per il popolo', per il quale le scelte politiche sono legittime se promuovono il bene comune" e che "mira a risolvere, nonostante la presenza di identità deboli o multiple, classi di problemi comuni" (p. 141). Un organo a cui affidare questo compito di controllo e di legittimazione potrebbe essere il Parlamento europeo. In un contesto del genere la Costituzione europea non si configurerebbe come constituere ma come constitutio (p. 220): non come sovvertimento dell'ordine esistente per la creazione di un sistema di rapporti nuovo, ma espressione di un equilibrio dinamico di interazioni e di diritti soggetto a continui aggiustamenti, ma non rivoluzionari. La Costituzione sarebbe, in questo caso, "non una prescrizione, ma un poscritto", dovendo "rispecchiare l'attuale sedimentazione delle comunità europee, comporre dei frammenti senza assorbirli in un nuovo organismo" (p. 149). Per questo per l'assetto costituzionale europeo si potrebbe utilizzare la connotazione di nuovo medievalismo: perché, come nel Medioevo la costituzione rifletterebbe un ordine e una rete di diritti e di rapporti già dato e non pretenderebbe di instaurarne uno ex novo. A segnare la differenza rispetto al Medioevo, ed è questo il contributo della postmodernità, sarebbe però il fatto che l'assetto costituzionale europeo, anche se dato, non sarebbe recepito una volta per sempre, non sarebbe espressione di un ordine immutabile: dovrebbe riflettere i continui aggiustamenti di tiro a cui va soggetto e sarebbe, quindi, fondamentalmente mobile. Così l'Unione sorgerebbe "in continuità con il patrimonio di cultura e valori che caratterizza la storia dei paesi che la compongono" (p. 167).

Il sovranazionalismo civile respinge la retorica del "nuovo" che contraddistingue la via politica all'Unione per privilegiare piuttosto la continuità e la conservazione, nel rispetto e nella valorizzazione dell'esistente. Nella realtà, però, si rivela molto più rivoluzionario del sovranazionalismo di matrice politica: il rispetto del multiculturalismo implica infatti una risemantizzazione dei termini e delle pratiche tradizionali della vita politica (come cittadinanza, legittimazione ecc.) verso pratiche istituzionali non ancora sperimentate, per le quali occorre la "fantasia" di un "ingegnere istituzionale" (p. 145).

Il sovranazionalismo civile mutua il suo nome dal fatto che immagina un'Europa come unione puramente regolativa, come associazione civile (societas) che punta a trasformare la relazione tra le diverse nazioni europee da "rapporto di potenza a conversazione in cui ciascuno deve tenere conto del punto di vista e dell'interesse dell'altro, limitando le proprie ambizioni" (p. 218). Contro un'Europa politica che finirebbe per ricreare un nuovo superstato con tutti i rischi di esasperazione nazionalistica ad esso connessi, ci sarebbe un'Europa civile, una "unione senza il noi, priva di deleterie mobilitazioni identitarie: "al posto del Leviatano le mille sottilissime catene di Lilliput" (p. 238). In questo modo l'Europa potrebbe farsi anche avanguardia e modello di una futura organizzazione mondiale, integralmente multiculturale e autenticamente cosmopolitica, improntata non alla competizione ma al dialogo e all'apertura reciproche.
Forse il progetto europeo di Scoditti sfiora i confini dell'utopia – come sembra pensare Gianluigi Palombella nel suo saggio introduttivo, sostenendo l'impossibilità di una scissione assoluta tra via politica e via civile: ma l'utopia rivela in modo dirompente ciò che di radicalmente altro il presente può offrire.



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A cura di:
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Periodico elettronico
codice ISSN 1591-4305
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