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Ultimo aggiornamento
15 giugno 2004
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Fabio Gadducci e Mirko Tavosanis
Tra firma dell'autore e marchio commerciale: il caso DisneyA noi è crollato un mito, e abbiamo allagato di lacrime la redazioneTermina in maniera assolutamente sopra le righe, in una azienda nota per la sua predilezione per l’understatement e i toni sommessi, il comunicato in cui la redazione del mensile Zio Paperone ha avvisato i suoi lettori della scomparsa del nome “Walt” dalla testata della collana. Il comunicato, probabilmente scritto dalla curatrice Lidia Cannatella, è apparso nel n.154 di Zio Paperone, il primo ornato dal solo marchio “Disney”. La stessa “rimozione”, ma in sordina, è avvenuta negli altri periodici. Questa scomparsa era stata preparata negli ambienti di via Sandri [sede della Walt Disney Italia] per alcuni mesi, e corrisponde a una precisa direttiva americana. La corporation Disney, all’apparenza, si prepara a fare i conti con il suo fondatore, e a togliere definitivamente dall’immagine che offre al pubblico le macchie che il creatore dell’impero ha lasciato nel corso della sua oltre che quarantennale carriera, dagli esordi di Kansas City fino alla sua scomparsa a Burbank nel dicembre 1966. La logica sembra chiara: la Disney incarna il family entertainment ben più di quanto ormai questo sia rappresentabile dalla figura di Walt. E questo non solo per le luci e ombre che ne hanno caratterizzato la vita, ma anche perché ormai la sua figura paterna, da zio d’America sornione e amichevole, un tempo popolarissima, sta forse semplicemente cadendo nel dimenticatoio e suscita interesse solo presso gli appassionati, come è accaduto ben prima a quelle dei fratelli Warner. E tutto questo nonostante che l’azienda si sia impegnata di recente nei festeggiamenti per il centenario della nascita del fondatore, che hanno visto l’uscita di un certo numero di volumi dedicati a Walt, sia in America che da noi in Europa. Una tale notizia merita dunque di essere approfondita, e offre il destro per una riflessione più generale sul concetto di marchio, e sulla sua relazione con la creatività del singolo. Certo, è impossibile fornire nel breve spazio di un articolo un resoconto accurato del rapporto fra autore e marchio oggi, ma sembra sensato focalizzare l’attenzione su di un caso così emblematico, da cui cercare di trarre qualche conclusione generale. Fatta questa premessa, il nostro intervento si strutturerà grosso modo in tre nuclei principali. Anzitutto, tenteremo di fornire un inquadramento del concetto di “marchio commerciale”, mettendo brevemente in evidenza le peculiarità che la sua diffusione ha assunto nel contesto attuale. Ci addentreremo in seguito in un viaggio alle origini di questo concetto per quel che riguarda il caso Disney, e in particolare per il mondo del fumetto. Infine, proporremo brevemente alcune considerazioni finali sui rapporti tra marchio e diritto d’autore, sempre filtrate attraverso la cartina di tornasole dei comics. Iniziamo però con una brevissima premessa terminologica. Nelle legislazioni occidentali si distingue tra “diritto d’autore” (il copyright), tutelato dalla Convenzione di Berna del 1896, e “marchio commerciale” (il trademark). Allo stato attuale, il diritto d’autore nasce con la creazione stessa di un’opera originale e nella maggior parte dei paesi si mantiene per settant’anni dopo la morte del creatore (o dei creatori, nel caso di un’opera collettiva). Il marchio commerciale invece è qualcosa che deve essere tenuto in uso in un determinato settore, con finalità commerciali, e possono diventare marchi anche parole o espressioni di pubblico dominio. Giusto per fare un esempio, ha ben poca importanza che la formula della Coca Cola sia o meno di dominio pubblico, e che in ogni caso chiunque possa produrre una bevanda analoga. Una tale bibita potrebbe sì essere commercializzata, ma non con il nome “Coca Cola”, il cui sfruttamento rimarrebbe in esclusiva alla compagnia di Atlanta. Tale esclusività rappresenta buona parte del valore commerciale dell’azienda, molto più forse che non i suoi beni materiali, e serve anche a protezione del pubblico, almeno in linea teorica: l’istituzione del “marchio” garantisce fra l’altro il consumatore sull’identità di ciò che si trova di fronte, mentre il copyright serve a proteggere il creatore di un’opera, sia sul versante dei diritti economici che di quelli morali. Messa in chiaro questa distinzione, tralasciamo per il momento le considerazioni sull’autore e concentriamoci invece sul marchio. La prima osservazione banale è che oggi questo concetto viene legato indissolubilmente alle grandi aziende e non alla creatività individuale: il marchio è qualcosa su cui investe chi ha soldi. Prendiamo a testimone di questo stato di cose un libro che l’anno scorso [2001], attorno al G8 di Genova, ha avuto un notevole impatto sul pubblico: No logo di Naomi Klein. Non perché sia un testo eccezionale, ma perché rappresenta una ragionevole vulgata, lo stato odierno delle conoscenze medie in questo settore. Dalla p. 25 della traduzione italiana (un po’ impacciata) leggiamo che:
Cosa possiamo leggere in controluce, partendo da queste frasi della Klein? In buona sostanza, che una delle novità caratteristiche del recente capitalismo è il suo concentrare l’attenzione sui beni immateriali. La Nike non vende scarpe, ma l’idea dello sport. La sua missione, dice Phil Knight nel volume citato (p. 44), non è soltanto quella di vendere scarpe, ma di “valorizzare la vita delle persone attraverso lo sport e il fitness”. Dalla nostra prospettiva, certo, sempre di vendita di scarpe si tratta. Ma di scarpe che si vendono molto meglio se collegate a un’idea. Non si può negare che il concetto di marchio oggi abbia queste connotazioni. Va però sottolineato che l’idea che la tendenza sia recente deve senz’altro essere sfumata. La creazione di un “marchio” associabile a un determinato “stile di vita” era un importante tratto dell’advertising già un secolo fa: basti pensare alla nascita e diffusione della Coca-Cola, e alle massicce campagne pubblicitarie che lanciarono la compagnia di Atlanta negli ultimi anni dell’Ottocento. Torniamo a No logo: alle pp. 37-38 troviamo anche una descrizione di aziende “che hanno sempre privilegiato il marketing rispetto al valore della merce in se stessa: Nike, Apple, Body Shop, Calvin Klein, Disney, Levi’s e Starbucks”. In che cosa si distingue la Disney dalle altre aziende menzionate (oltre che per essere, con l’eccezione della Levi’s, la più longeva)? Soprattutto il fatto che produca non tanto oggetti materiali commerciabili quanto immagini. E questo fin dagli inizi, alla metà degli anni Venti, in un’epoca in cui il fordismo e il taylorismo rappresentavano la punta avanzata in fatto di cultura produttiva. Più in dettaglio: se i prodotti che la Nike commercializza sono fondamentalmente capi d’abbigliamento, che cosa produce la Disney? Per cominciare: film, fumetti (ora molto meno di un tempo), ma anche parchi giochi, tantissimo merchandising... Pur senza prendere in considerazione la sua attuale partnership con la catena televisiva ABC, la Disney, molto più di quanto non succeda con Apple o Calvin Klein, non è affatto identificata con un unico settore merceologico; forse il caso che le si avvicina di più è quello della Virgin [multinazionale che mantiene sotto il proprio marchio case discografiche, linee aeree, bevande analcoliche]. Ed è proprio per questo motivo che il caso Disney è davvero esemplare (tanto da risultare uno dei bersagli preferiti della Klein). Lo stesso nome Walt Disney ha rappresentato un marchio, capace da solo di fornire un valore aggiunto a qualsiasi bene cui venisse affiancato. Non a caso, già nel 1953 lo stesso Walt aveva fondato prima la WED Enterprises, Inc. (dalle iniziali del suo nome) e più tardi, dopo la cessione di questa alla casa madre nel 1963, la Retlaw (che può essere divertente leggere alla rovescia!). Entrambe le ditte avevano come asset principale la concessione dei diritti sull’uso del nome “Walt Disney” alla Walt Disney Productions (e, in aggiunta, la gestione prima della ferrovia a vapore e più tardi della monorotaia di Disneyland; ma questo faceva parte della particolare visione del mondo di zio Walt…). Grazie a clausole precise sui proventi delle iniziative a cui il nome veniva associato, la ditta ha continuato a generare notevoli profitti fino al 1982, anno in cui anch’essa venne riassorbita. Un simile uso del nome come marchio di fabbrica e valore separato è precoce, anche se non eccezionale: in fin dei conti, lo stesso Walt Disney ha sin dagli anni Venti puntato coscientemente alla valorizzazione del proprio nome, e in parte della sua firma. Firma che, sia detto per inciso, solo raramente aveva occasione di tracciare in prima persona… e che veniva invece realizzata da collaboratori e disegnatori nelle occorrenze più disparate. Una grafia accattivante, con una tendenza al curvilineo (come per le forme di Topolino e compagni), e che con il passare degli anni è divenuta un logo preciso e personale. Ma, come dicevamo prima, la cosa più interessante in questa storia è che i prodotti Disney erano immateriali, e in primo luogo (e in una prima fase) personaggi nati da un creatore. Con alcune vistose eccezioni nel campo dell’abbigliamento, infatti, oggi i marchi più noti non portano i nomi dei proprietari, né mantengono un’associazione con l’attività di individui supposti geniali. Marchi storici come Edison e Marconi non hanno continuatori recenti, a parte il Dolby Stereo. Il caso di “Walt Disney” ha dunque una valenza emblematica. Il marchio veniva applicato non a scarpe o calzoni ma a un vero e proprio mondo, incarnato in immagini e personaggi che in quanto tali si potevano prestare a più interpretazioni, non tutte necessariamente autorizzate. Per esempio, non è un mistero che buona parte delle storie a fumetti disneyane siano state realizzate, dagli anni Cinquanta in avanti, proprio qui da noi, da sceneggiatori e illustratori italiani. Ma qual è la situazione riguardo il possesso (in senso lato) di tali storie? Proviamo a inquadrare i termini della questione riprendendo alcune righe dal nostro volume, Casa Disney (pag.22):
Chi produce fumetti produce insomma “oggetti” in cui marchio commerciale e diritto d’autore si mescolano e si confondono. Fra l’altro, tale collocazione a cavallo fra autorialità e pubblicità rispecchia l’interpretazione data storicamente al fumetto di soggetto disneyano negli States, visto dall’azienda soprattutto come una estensione del merchandising, come un veicolo utile soprattutto a diffondere il nome Disney (più o meno come i famosi orologi Ingersoll). Come si rapporta questo stato di cose con la libertà dell’autore, che dovrebbe permettere di elaborare le icone contemporanee, soprattutto se utilizza il registro dell’ironia e della parodia? Esiste un caso famoso in America, legato alla testata underground Air Pirates Funnies, di cui discutiamo a lungo nel già citato Casa Disney. In questo caso un gruppo di artisti pubblicò alcuni albi, editi da una improbabile Hell Comics, in cui Topolino era il testimonial in copertina, nonché l’interprete di audaci storie con Minnie e nemici classici quali Gambadilegno e Macchia Nera. La Disney non ne fu compiaciuta, e domandò la sospensione delle pubblicazioni. La causa si protrasse per anni, e vide in effetti la condanna degli autori per violazione del copyright, mentre all’azienda di Burbank vennero riconosciuti circa 200.000 dollari di danni (anche se poi l’intera faccenda si concluse con un patteggiamento extra-giudiziale). È però interessante notare come nel primo giudizio contro gli Air Pirates venisse esplicitamente indicato che nei fumetti in questione i personaggi venivano inseriti in “incongruous settings where they were engaged in activities clearly antithetical to the accepted Mickey Mouse world of scrubbed faces, bright smiles and happy endings”. Il problema per i legali della Disney non consisteva tanto nella diluizione del marchio, dunque, perché era impossibile sostenere che i prodotti si rivolgessero allo stesso pubblico degli originali, quanto la diffusione di una versione snaturata del marchio stesso. Un principio cardine, caro alla Disney. Fra le frasi che caratterizzano la denuncia, in un caso analogo dei primi anni Settanta, contro dei negozi della Bay Area che vendevano magliette con stampata l’effigie dei personaggi in posizioni scabrose, si leggeva fra l’altro che tali rappresentazioni distruggevano “the plaintiff’s work of many years to acquire an image of innocent delightfulness with these characters, known and loved by people all over the world, particularly, but not now only by children”. Anche in Italia si sono verificati casi analoghi nel mondo della satira. Uno di loro riguarda un fumettista molto noto in Toscana: Federico M. Sardelli, il creatore della rubrica Trippa che illustra la quarta di copertina del mensile livornese Il Vernacoliere. Alla fine degli anni Ottanta Sardelli aveva cominciato a proporre sulla rivista vignette con i personaggi disneyani, disegnati nello stile del Gottfredson degli anni Trenta ma inseriti in ambientazioni livornesi. In una sua storia poteva quindi capitare di vedere Topolino e Pippo dialogare in dialetto labronico e tentare (inutilmente) di ordinare della cecìna a un Gambadilegno-bottegaio... Un simile utilizzo dei personaggi è perfettamente lecito: la legge italiana sul diritto d’autore consente di fare parodie anche su figure coperte da diritti, rendendo quindi possibile realizzare legalmente anche opere come QuINRI del pittore Gianluca Sbrana, che mostra la crocifissione dei tre nipotini di Paperino. In astratto, quindi, la Disney non potrebbe impedire questi usi. Spesso però lo fa, o comunque tenta di farlo, al punto di essere diventata famosa per la ferrea gestione sulle apparizioni dei suoi personaggi. E quindi, per tornare al nostro caso esemplare, su esplicita richiesta della Disney le strisce di Sardelli sono state rapidamente epurate: nessuno ha voglia di essere coinvolto in una battaglia legale dall’esito incerto contro una multinazionale, anche se si trova evidentemente dalla parte della ragione. Tale considerazione suona particolarmente vera per la Disney, visto che gli “avvocati” fanno parte da sempre dell’immaginario legato all’azienda. Le prime battaglie legali a cui ha partecipato la compagnia sono sommariamente descritte nella recente biografia del fratello di Walt, Roy O. Disney: Building a Company, curata dall’agiografo ufficiale della famiglia, Bob Thomas. Tali confronti danno una misura dell’intensità con cui lo sviluppo del merchandising, e le battaglie contro i copyright infringers, abbiano caratterizzato la crescita della compagnia fin dalle origini. Una costante sorveglianza sulla concessione dei diritti che si è poi trasformata in un controllo ferreo sull’uso dei personaggi, in qualunque contesto. Ma che cosa succede quando un autore si trova a lavorare a pieno titolo con i personaggi disneyani, ovverosia, a elaborarne trame o a disegnarne tavole a fumetti su precisa richiesta dell’azienda? Sono casi molti concreti, e che ci riguardano da vicino, visto che, come accennavamo in precedenza, ormai da cinquant’anni a questa parte la maggior parte delle storie a fumetti targate Disney sono in realtà prodotte in Europa, e in particolare nel nostro paese. Il problema sorge perché le storie a fumetti dipendono in tutto da chi le realizza. Almeno teoricamente, una scarpa può essere progettata da venti persone diverse, e prodotta in subappalto da una ditta in Cina o in Tailandia, senza che rimanga la minima traccia di queste origini. Ma un fumetto porta sempre un marchio riconoscibile. Lo stile di un autore risulta infatti quasi sempre ben distinguibile da quello di un altro, anche a un occhio inesperto. Eppure, fino a poco tempo fa l’unico nome ammesso sulle storie Disney a fumetti era quello di Walt; e ciò accadeva, assurdamente, anche molto tempo dopo la morte dell’interessato. Certo, è solo da poco che la percezione dell’“autorialità” del fumetto è entrata nell’immaginario comune, e le pratiche adottate generalmente dagli editori, almeno fino a tempi recenti, hanno sempre teso a disconoscere il ruolo rivestito dai singoli autori nel creare un personaggio o una data storia. Nel caso Disney, però, più che altrove, l’unico “autore” che doveva comparire era Walt stesso. Il creatore dei personaggi (o addirittura, in questo caso, solo di alcuni di essi) era il creatore di tutto e il controllore del marchio: gli altri erano soltanto dei semplici artigiani. Una situazione comune in molti campi, a cominciare dal cinema, in cui la rivalutazione del ruolo del regista avviene in pratica con la Nouvelle Vague - mentre in precedenza l’unica figura di rilievo era quella dell’attore, o al limite quella del produttore. Questa situazione ha portato a casi limite anche nel nostro paese, soprattutto nel campo del fumetto. Col tempo, infatti, molti disegnatori nati con l’idea di essere “artigiani” o “meri esecutori” si sono scoperti invece “autori”, e hanno cominciato ad avanzare richieste in tal senso. Un esempio che bene illustra questa trasformazione è dato da un caso giudiziario che riguardava uno degli autori disneyani di punta, Romano Scarpa (lui stesso creatore di personaggi memorabili quali Brigitta e Trudy), e che si incentrava sul possesso delle tavole originali. Riprendendo di nuovo da Casa Disney (pp.47-48): Nel 1988 [...] Romano Scarpa, forse il più celebre dei disegnatori disneyani italiani, citò in giudizio la Arnoldo Mondadori Editore con l’obiettivo di ottenere la restituzione delle tavole originali dei fumetti da lui realizzati. Diritto che però gli venne negato dal tribunale, proprio sulla base del principio che il suo lavoro su personaggi già creati da terze parti non aveva una sufficiente componente creativa e rientrava quindi nella tipologia del “contratto d’opera” (prestazione per la realizzazione di un compito) anziché, come sostenuto da Scarpa, in quella del “contratto di edizione” (comportante la cessione dei diritti relativi a opere dell’ingegno, immateriali).
I rapporti tra marchio e diritto d’autore non sono quindi immutabili. Oggi i fumetti disneyani prodotti in Italia continuano a riportare per esteso la firma “Walt Disney”, ma le hanno affiancato i nomi degli “esecutori”. Una notevole conquista per i reali creatori delle storie, anche se, a ben vedere, tale scelta è in parte utilitaristica, legata al richiamo che il nome di un autore può esercitare nei confronti del pubblico. In termini più generali va notato che, benché la standardizzazione della produzione industriale renda possibile in alcuni casi creare oggetti del tutto simili in diverse parti del mondo, la componente creativa umana esiste - ed è addirittura alla base (perlomeno in teoria) di una cosa tanto integrata al sistema quanto le indicazioni di produzione, con contrapposizioni non sempre positive (“Made in France” contro “Made in China”, il camembert contro McDonald’s, ma anche contro i coltivatori del Terzo Mondo). Certo, tra creatività e marchio, il pendolo oggi oscilla nella direzione dell’impersonale, anche con eventi di rottura come quello con cui abbiamo aperto l’articolo. Ma a ogni trionfo del marchio se ne può probabilmente contrapporre uno della creatività individuale. E a media scadenza non sembra possibile che uno dei due poli possa cancellare l’altro. Arriverà quindi, per riflusso, il momento in cui le scarpe della Nike avranno regolarmente sulla suola il nome del designer (come già succede, in altri prodotti)? E magari quello del resto dei creatori? O addirittura il nome degli operai che hanno realizzato il prodotto, in un foglietto inserito nella confezione? In fin dei conti, qualcosa di simile già accade in prodotti industriali a pieno titolo, a cominciare dai titoli di coda di un film, inclusi quelli d’animazione… e non è che il ruolo di un assistente alla produzione sia enormemente più creativo di quello di un’operaia alla cucitrice. E se questo accadesse, che effetto produrrebbe sul mondo che ci circonda? L’articolo è la rielaborazione di un intervento dal titolo Artisti, marchio, diritto d’autore: il caso Disney, presentato nell’ambito di un incontro sul copyright che si è tenuto a Pisa nei saloni dell’ex Stazione Leopolda i giorni 25 e 26 del maggio 2002.
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