Lucia Nocentini
Eros e logos nella modica
theologia di Ugo Grozio:
in margine al carme Eucarestia
Punto di
equilibrio e di rottura, la riflessione
teologico-giuridico-politica groziana contiene elementi di
critica concettuale e di continuità con la tradizione
religiosa, che rivelano una connessione ambivalente di ragione e
fede, di intelligibilità e mistero, di sacro e
profano.
Da un lato, negli
scritti groziani, c'è la critica di tutte le pretese
dimostrative chiamate a sostegno delle argomentazioni teologiche;
dall’altro si prospetta, per i contenuti religiosi, una
nuova esegesi storico-critica la quale, rinunciando ad ogni
rigida contrapposizione tra ortodossia ed eterodossia, vuole
affermare la validità di una pluralità di piani e
di valori e ristabilire, al di là di ogni scissione, un
modello comprensivo di teologia moderata e ragionevole
(modica theologia). Questa modica theologia,
facendo proprio l’universalismo della primaeva ecclesia
catholica, è volta ad operare un’autentica e
decisiva “riforma”, della quale erano già
fissati i termini e delineato l’orientamento negli scritti
dei Padri della Chiesa e nei canoni dei grandi concili ecumenici.
Si tratta di è uno dei segni più perspicui della
prospettiva eclettica ed irenica che sostiene la riflessione
groziana; il che trova inoltre testimonianza nella volontà
di non respingere mai voci e manifestazioni tra loro anche assai
differenziate, ma di accoglierle invece comprensivamente,
unificandole e coniugandole, nella convinzione che nella
varietà di linguaggi reciprocamente complementari in cui
si esprime il divino si manifesti, pur nella specificità
di ciascuno, la convergenza di una verità comune e
fondamentale.
Nella prospettiva
groziana la multiformità delle dottrine e dei culti
religiosi – e dunque la stessa molteplicità delle
denominazioni divine -, esprime una coscienza religiosa unitaria,
riscontrabile nel perenne riproporsi dei medesimi contenuti
essenziali della religione pur nelle variabili manifestazioni
fenomeniche della fede. In tal senso anche in quelle opere, come
il De Veritate Religionis Christianae (pubblicato nel
1622 in edizione olandese e nel 1627 in latino), che si
prefiggono un intento apologetico, emerge questa convinzione:
nelle più differenti confessioni religiose Grozio
riconosce, pariteticamente, altrettante manifestazioni valide di
una medesima verità trascendente, considerandole, al tempo
stesso, espressioni irriducibili della natura umana universale
che reca connaturato in sé un istinto religioso innato.
Questo, situandosi alla genesi dell’esplicarsi storico
della religione, ne indica al contempo anche la mèta
ultima: una cattolicità fondata, in
radice, sull’universalità dell’idea di
Dio.
A partire
dall’accordo che in tal modo viene maturando, nello
sviluppo del pensiero groziano, tra teologia e sapere in
generale, tra eternità e mondo, tra infinito e finito, si
afferma l’idea di un rapporto “analogico” e
simbolico, tra Dio e mondo, giustificato, più in
particolare, dall’appartenenza dell’uomo e della sua
attività conoscitiva ad un universo ordinato retto da
un’intelligenza divina sommamente ragionevole e
provvidente. Quest’appartenenza è una garanzia che
salvaguarda la realtà dell’uomo da ogni proiezione
nella sfera dell’irrazionale e dell’assurdo, e ne
eleva la dignità naturale in direzione soprannaturale
dichiarandone la destinazione eterna. Sottesa all’aspetto
critico che caratterizza la riflessione teologica groziana, si
può inoltre riscontrare anche una rilevante implicazione
di carattere gnoseologico: come ogni altra conoscenza, anche
quella teologica è di natura interpretativa e simbolica;
è come una vasta immagine, la quale ci approssima solo
analogicamente e interpretativamente alla verità. In altri
termini: l’idea di Dio non può essere fissata in un
particolare, contenuto dogmatico determinato e positivo,
dimostrabile e definibile univocamente e una volta per tutte, ma
deve essere colta in una correlazione mobile e aperta con le
facoltà dell’uomo. In tal senso l’immagine di
Dio viene a profilarsi come una sorta di “focus
imaginarius” che ci informa più sulla proiezione
immaginativa delle nostre facoltà, che non su di una
presunta natura reale della divinità. Perché la
forma di tale immagine dipende appunto dalla forma del nostro
stesso essere, vale a dire dalla nostra conformazione
conoscitiva.
In questa
prospettiva storico-critica, le dottrine teologiche statiche
venivano a dissolversi nel quadro di una ermeneutica religiosa,
storico-critica, aperta e duttile, trovando il proprio fondamento
su postulati ragionevoli, su certezze morali e dimostrative e
sulla verosimiglianza; al tempo stesso veniva posta in risalto
l’attività formatrice e conoscitiva
dell’uomo e quindi il motivo dell’autonomia
della soggettività umana come potenza formatrice della
stessa verità religiosa, in contrapposizione ad ogni
accettazione passiva ed eteronoma del dogma.
Così gli
asserti in base ai quali la modica theologia argomenta a
favore dell’esistenza di Dio, la tesi che nulla sarebbe se
qualcosa non fosse necessariamente o per sé; quella ex
natura humanae mentis, come anche quella ex perfectione
rerum, non si pretendono dimostrazioni in senso proprio (sul
modello delle prove ostensive della matematica), ma si propongono
piuttosto come l’esplicitazione-interpretazione di rinvii
anamnestici che sarebbero impliciti nella struttura di ogni
esistenza naturale e storica. L’essenza del divino risulta
pertanto concepibile non nelle forme di un conoscere positivo o
dimostrativo, ma solo in quelle di un indiretto riconoscere. Essa
viene a coincidere con quella propriamente progettuale - anche se
propria di un progetto propriamente in atto – di una
mirabile armonia che governerebbe il mondo storico-naturale, e
perciò con la condizione di una sua infinita
ragionevolezza, e col principio per cui ogni creatura, entro i
limiti propri della sua esistenza particolare e dunque iuxta
propria principia, è a suo modo
perfetta, in quanto espressione modalmente definita del progetto
divino che la riguarda. Ne consegue una legittimazione
filosofico-teologica della particolarità e
diversità. Tutto è in Dio senza per questo essere
Dio. L’abbandono di ogni conoscenza realistica del divino
consente di uscire senza riserve dall’alternativa fra una
trascendenza che renderebbe impensabile una qualsivoglia
immanenza e una immanenza che renderebbe superflua e arbitraria
ogni ipotesi di trascendenza. Il divino di cui si parla è
un’essenza che si svela all’uomo nei limiti di
ciascuna realtà naturale, quale sua irriducibile
condizione di possibilità; all’uomo soltanto
è concesso cogliervelo, perché solo l’uomo
è in grado (per la natura definiente della sua
conoscenza), di rintracciare il limite di ciascuna e di
riconoscerlo come tale. Vi è dunque piena consapevolezza
della funzione del limite, di quel modus che in ogni
caso deve essere cercato. Decisiva risulta anche
l’implicazione gnoseologica di questa onto-teologia:
l’autoaccettazione di una ragione che si riconosce, ad un
tempo, finita nelle sue forme e infinita nel suo
principio. Se infatti Dio
continua ad essere concepito come garante della comune
ragionevolezza del genere umano e della conoscenza, questa
tuttavia è per natura destinata a rimanere aperta,
incompiuta e perfettibile in rapporto ad una verità eterna
che la trascende e verso la quale è dunque come
perennemente “intenzionata”, mediante acquisizioni
graduali e progressive. L’adeguatezza e unitarietà
di questa permanente apertura intenzionale si basa appunto sulla
certezza, di carattere precipuamente teologico-morale, attestata
dalle Scritture, dell’esistenza di una universale
verità religiosa che alimenta e sostiene la ricerca
conoscitiva umana, costituendone sia il fondamento metafisico,
sia, in senso regolativo, l’orizzonte ultimo. In tal senso,
in Grozio, al di là di ogni eteronomia religiosa,
nell’intento di colmare ogni rigida contrapposizione tra
immanenza e trascendenza, tra umano e divino, viene maturando la
consapevolezza peculiarmente moderna per la quale la
capacità conoscitiva dell’uomo, avvalendosi
galileianamente tanto del “codice” della Scrittura,
quanto di quello della natura – donatigli entrambi da Dio-
sia da considerarsi in grado di approssimarsi al divino, seppure
nei limiti consentiti dalla sua autonomia
naturale, così da
intraprendere un itinerario di perfezione che è tuttavia
destinato a rimanere temporalmente incompiuto. Questo in ragione
della differenza che separa onto-teologicamente Dio e
l’uomo, Creatore e creatura. Da tale configurazione
problematica emerge la dimensione o fondazione storico-naturale e
ontologica della religione, in
quanto costitutiva di ogni essere umano e ragionevole.
Considerata sotto questo profilo ogni religione esprime dunque
una forma di necessità naturale e un grado di perfezione
che inerisce a tutte le sue espressioni storico-fenomeniche, ed
è pertanto “vera”.
In tal senso la
diversità delle espressioni religiose non costituisce di
per sé errore, imperfezione, eresia; ma, al contrario,
l’errore consiste proprio nella presunzione di un preteso
diritto, avanzata illegittimamente da una religione storica
particolare, di essere una espressione unica e definitiva, in
quanto organo privilegiato di verità religiosa e
teoretica. Una simile pretesa si sostiene da un punto di vista
teoretico, su una aporia conoscitiva pregiudiziale, sia sulla
natura della religione, sia, conseguentemente, sulla
varietà di determinazioni che questa storicamente viene ad
assumere. Tale disconoscimento, che induce a negare il carattere
di ortodossia e di veridicità alle esperienze molteplici
che si manifestano in ambito storico-temporale, oltrepassa
l’orizzonte e il limite della tolleranza, sconfinando
inesorabilmente nell’irrazionalità e odio delle
guerre di religione. In tal senso Grozio, al di là delle
dispute teologiche insorte in epoca moderna a causa
dell’indeterminatezza delle parole e dall’abuso di
uno spirito dottrinario, sviluppa, in modo del tutto nuovo per il
suo tempo, le premesse di un sapere teologico rinnovato, e pone
le basi di una esegesi scritturale rinnovata, improntata a
criteri storico-filologici e all’insegna di un umanesimo
critico sorretto da una esigenza moderna di semplicità e
chiarezza, e di universale comunicabilità (sapiendum
ad sobrietatem).
La strada da
percorrere per il ripristino della primaeva unio
catholica e per risanare le scissioni politico-religiose
della Cristianità moderna, passa dunque, per Grozio,
attraverso una riduzione sistematica dell’apparato
dogmatico allo stretto essenziale, tenendo metodologicamente
ferma la distinzione tra le parti fondamentali (
fundamentalia fidei ) e quelle accessorie
(adiaphora) degli articoli di fede. La
“veste” della Chiesa universale (catholica)
resti pure multiforme, cangiante e composita, purché la
“veste” di Cristo si presenti di nuovo quale era in
origine, ossia non più logora e senza
strappi. In tale prospettiva
viene da Grozio costantemente riproposta l’istanza della
libertà religiosa e di pensiero, nella prospettiva di una
teologia aperta al dialogo, cui non viene riconosciuto di
principio il diritto di precludere a nessuno la salvezza,
dispensata divinamente a tutti, seppure in gradi
diversi.
Così
Grozio, durante l'età delle guerre di religione,
dà forma ad un progetto di pacificazione
politico-religiosa che, al di là di ogni pacifismo sterile
e acosmico, fa propria la necessità di dare giudizi
sereni, ma anche severi e precisi, accompagnati da misure
operative sicure, ispirate al bene comune oltre ogni logica di
parte. Così di fronte all’inasprirsi della
situazione politico-religiosa degli Stati d’Olanda, pur
ponendosi dalla parte del magistrato civile con sentimenti
generalmente definiti “erastiani”, Grozio mantiene
fermo il proposito di garantire la concordia e la pace dello
Stato, in modo il più possibile compatibile con la
tolleranza e il pluralismo ecclesiale, considerati alla stregua
di esiti naturali di una pluralità teologica
irrinunciabile, da sempre presente in seno alla Chiesa. Le
affermazioni disseminate in tutta la sua opera rivelano Grozio
costantemente ancorato alla credenza nell’antica Chiesa,
come fu in auge
nell’epoca dei grandi concili ecumenici (fino al VI
secolo). In tal senso la nuova Chiesa, prospettata da Grozio
tramite un itinerario a ritroso, in direzione di quella
originaria, non viene mai concepita come partecipabile in una
dimensione teologica arcana e astratta, bensì come
eticamente esperibile solo nei sentieri della nuova geografia
della fede e della moderazione teologica (modica
theologia), aperti e delineati dalla devotio
moderna; e ciò per amore di pace: “Ho amato la
pace e continuo ad amarla, e ad essa dirigo ogni mio sforzo tanto
pubblico che privato, per conseguirla innanzitutto tra gli Stati
esistenti per la volontà di Cristo. Concepisco tuttavia la
pace nel rispetto di quella verità consegnataci dalle
Sacre Scritture e da una perpetua tradizione. E poiché,
quand’anche conseguita, la pace non potrebbe conservarsi al
di fuori di un qualche ordine politico, amo anche
quell’ordine che, la lunga esperienza dei secoli trascorsi
ci ha testimoniato degno di lode”.
La
modica theologia funge pertanto da filo
conduttore attraverso gli scritti groziani giovanili al di
là della loro articolazione formale diversificata. In essa
agnosticismo antidottrinario, umanesimo teologico, istanze di
tolleranza e di concordia si coniugano, dando vita ad un criterio
di ragionevolezza atto a fungere da vaglio critico di quanto
è necessario o non necessario credere ai fini della
salvezza e sul quale si rende possibile e risulta giustificato
l’intervento imperativo dell’Autorità Sovrana
in ordine alle cose sacre (De Imperio Summarum Potestatum
circa sacra).
Nel De
Imperio Summarum Potestatum circa sacra,(1617) Grozio definisce pertanto i confini
fra Stato e Chiesa, conferendo alla giurisdizione della
sovranità statuale il dominio di tutto quanto non è
regolato dal diritto divino, escludendo tuttavia che, a motivo di
ciò, lo Stato potesse strumentalmente subordinare a
sé, in vista di finalità esclusivamente terrene, la
Chiesa e i valori religiosi.
Operata la
distinzione tra pochi princìpi essenziali alla salvezza
(fundamentalia fidei) come base indispensabile della
dottrina (modica theologia), tutto il resto è da
considerarsi materiale opinabile, ivi incluso il dogma della
predestinazione che era stato causa di controversie
nell’ambito dello schieramento riformato. Questa materia
opinabile non andava inasprita lasciandola alla mercé
delle singole chiese, sempre pronte a suscitare controversie
interminabili, ma doveva essere regolamentata dal potere
dell’Autorità Sovrana, unico e assoluto, il
solo dotato di facoltà legislativa e giurisdizionale.
Dunque tanto la chiesa di Roma, quanto quella gomarista
d’Olanda si avvalevano di un potere usurpato, avendo
prevaricato l’autorità legittima dei vari Stati. Il
potere coattivo spetta ai sovrani e unicamente ad essi, che per
loro natura sono i custodi dello jus gladii, mentre va
negato alle Chiese, cui è affidata soltanto la funzione di
proteggere e di guidare le coscienze. E non v’è
altro modo per ristabilire la pace e l’unione se non quello
di conferire pieno potere ai principi cristiani, consapevoli
della necessità di mantenere l’ordine nei loro Stati
senza ricorrere ad una politica di repressione.
Valutando la
Riforma come un fenomeno complesso il cui significato non
può essere determinato soltanto sul piano dogmatico ed
ecclesiastico, ma più propriamente in sede
storico-politica, Grozio interpreta il protestantesimo mettendo
in luce le scissioni e le fratture politico-teologiche che in
seguito ad esso si sono prodotte. L’ortodossia riformata,
irrigiditasi, ha finito infatti per valersi degli stessi
strumenti dell’avversario, dando vita ad un nuovo
dogmatismo settario e conseguentemente a violente spaccature
politico-religiose. Se alla Ginevra calviniana è rivolta
l’accusa di una chiusura teocratica e sacerdotale,
altrettanto esplicita è la condanna di quelle dottrine
religiose che hanno subordinato i valori della convivenza civile
a quelli ecclesiastici: lo zelo sconsiderato religioso di Lutero,
le dottrine sediziose e destabilizzanti dei monarcomachi, il cui
dogmatismo ha condotto ad “innalzare altare contro
altare” e ad irrigidire contrapposizioni che avrebbero
potuto assumere forme meno radicali. In Grozio, viene pertanto a
delinearsi una “terza via”, in alternativa a Roma e a
Ginevra, che, come si fa carico delle più autentiche
finalità del progetto riformatore, allo stesso modo si
richiama alle istanze
più genuine del cattolicesimo.
Sia contro la
ricerca irrequieta di specificazioni religiose sempre nuove, sia
contro l’irrigidimento delle presunte ortodossie, Grozio
auspica un ritorno al nucleo essenziale di verità
fondamentali proprio del Cristianesimo delle origini. Esiste
infatti una sorta di logica interna all’argomentazione
teologica, che ne guida gli sviluppi senza che mai si possa
pervenire, in questo ambito, ad un risultato certo e univoco.
Questo continuo spostamento delle basi concettuali genera il
moltiplicarsi di ipotesi sempre nuove, ma ogni volta inadeguate e
parziali, a causa dell’intrinseca incomprensibilità
del mistero divino di cui vorrebbero dar ragione. La
vanità delle dispute teologiche,
l'impossibilità di dirimerle esclusivamente con
criteri interni alle singole dottrine; la consapevolezza storica
dei mezzi effettivi con i quali sia le eresie, sia le ortodossie
si mantengono, erano tutti elementi che sconsigliavano e
rendevano impraticabile, dopo la crisi della Riforma,
l’imposizione di un criterio rigidamente univoco di
ortodossia ecclesiale, cui invece si appellavano le varie
teologie dogmatiche in contrasto. Da ciò prende vita lo
spirito “antiteologico” di Grozio, che, dal
riconoscimento dell’inefficacia di ogni soluzione puramente
dottrinaria – la quale anziché sedare le dispute
finisce per offrire nuova materia per incrementarle -, è
indotto a collocarsi in una posizione originale, relativamente
distaccata rispetto ai movimenti confessionali della sua epoca.
Sostituendo al principio del dogma quello etico del rispetto
reciproco e della semplificazione dottrinaria, la modica
theologia di Grozio ribadisce, sulle orme di Aconcio,
Erasmo, Melantone, Cassander etc., la necessità di
attenersi all’essenziale, prospettando unicamente quanto
è necessario alla salvezza (fundamentalia fidei),
e lasciando un’ampia discrezionalità riguardo a
tutti i vari punti secondari (adiaphora) che, in quanto
indifferenti alla salvezza, possono essere demandati
alla libera scelta individuale e alle varie confessioni di fede.
Storicizzatasi nella sua forma più compiuta, nella
“verità della religione cristiana”, la
modica theologia viene in tal modo ad essere concepita
come una sorta di matrice universale di tutte le confessioni
religiose, ossia una costante teorico-pratica che si esplica in
una miriade di articolazioni storico-fenomeniche variabili.
Pertanto, il Cristianesimo etico e tendenzialmente
“aconfessionale” di Grozio che si apre ad un
amplissimo latitudinarismo, in cui rimangono fermi sia i
risultati essenziali della tradizione catholica più autentica sia quelli
della critica umanistica, non solo nel loro aspetto positivo di
riforma religiosa, ma anche in quello negativo di salvaguardia
dell'autonomia dell'individuo e del sapere laico rispetto
ad ogni ingerenza di carattere rigidamente dogmatico ed
esclusivistico.
La fede si fa
allora espressione multiforme di una religiosità libera e
duttile, mentre il rapporto della religione con la
sovranità statuale e la pace pubblica, ossia il legame tra
teologico e politico diviene la preoccupazione dominante. In tal
senso equilibrio, moderazione teologica, sobrietà
esegetica, “adiaphorismo” ed essenzialità
dogmatica - alieni dal gusto delle controversie e della
superfetazione dottrinaria-, si prospettano come i valori
essenziali che orientano la modica theologia di Grozio,
quale ideale di una religiosità umanistica, critica,
libera.
Il concetto di
concordia come unità nella differenza, come ordine in cui
unità e molteplicità si richiamano l’un
l’altra, è alla base non solo della riflessione
teologica groziana, ma anche della sua fondazione etico-religiosa
della politica. Lo sfondo onto-teologico del problema politico
emerge nell’idea della sovranità come suprema
invarianza, quale unità sovranamente coesiva del diverso,
ovvero organismo politico, seconda natura che l’uomo
istituisce a somiglianza della propria e in cui unica è la
fonte delle obbligazioni.
Le uniche
differenziazioni possibili sono dunque quelle di tipo interno,
con finalità meramente funzionali. E, d’altro canto,
proprio per questo loro carattere, tali differenziazioni non
possono in alcun modo interpretarsi come eteronomia. Al
contrario esse assumono il valore di autonomia,
giacché debbono agire (ed agiscono) come strumento di
organica unificazione di parti diverse e apparentemente
scoordinate, similmente a quanto avviene nel corpo umano nel
quale i vari elementi (le membra), preposti a funzioni diverse,
si riducono ad unità, divenendo in tal modo
“significanti”, in virtù (e solo in
virtù) della loro relazione col tutto, nei confronti del
quale, dunque, si rapportano come parti costitutive. Ecco
perché Grozio può in piena tranquillità
affermare che “la condizione del sovrano è tale che,
non solo non vi è nulla che la superi, ma neppure che la
uguagli […]. Ed è sicuro che più di ogni
altra cosa contrasta la validità del potere,
l’esistenza di una molteplicità di supremi comandi:
infatti così come nell’uomo vi è una sola
volontà che fa muovere tutte le membra e presiede alle
loro azioni, allo stesso modo, nel corpo sociale, la fonte delle
obbligazioni è unica”.
La Summa Potestas è dunque
da concepirsi come un’unità perfetta e indivisibile
simile a quella che anima i corpi naturali; e pertanto come una
“communio ex jure, jure naturali”, che vive e
persevera nell’esistenza perché si radica nella vita
stessa dell’organismo sociale, coordinandone le istanze e
funzioni in una direzione del tutto
unitaria. Attraverso l’assoggettamento dei
membri della comunità al suo (buon) volere, la Potenza
Sovrana dirige la vita sociale, proteggendola
nell’esprimersi di essa a livello delle
individualità soggettive
(subjecti).
E, d’altro canto, è possibile conservare la
stabilità e l’autonomia del corpo, ponendolo al
riparo dall’indeterminazione e dalla fluttuazione tra
principi contrapposti, soltanto dopo aver stabilito un quadro di
valori (razionalmente non soggetti ad una mera
oppugnabilità critica), in grado di ordinare in modo
armonico la vita della comunità. Valori, in altri termini,
atti non solo ad assicurarne l’esistenza, ma anche a
garantire il rispetto della libertà dei membri di cui essa
è composta. E’ questo, ci sembra, il senso
più vero del progetto groziano, la cui possibilità
di riuscita è evidentemente subordinata ad una condizione
di fondo: quella di dimostrare la necessità di un rapporto
di soggezione illimitata dell’individuo ad una
auctoritas (= auctor + (v) itas),
volta ad una finalità intrinsecamente e universalmente
buona (summum bonum).
Quando non si riconosca “soggetto”
(subjectum) a tale autorità, l’individuo
è destinato a rimanere irrelato rispetto al “corpo
comune” (effetto del processo della comune scelta di
assoggettamento in vista del conseguimento dei benefici, indicati
in precedenza), presentandosi come una anomalia inaccettabile,
giuridicamente irrilevante, e perciò stesso
“inqualificabile” sotto il profilo sia legislativo
che giurisdizionale.
In tal senso il
tema delle libere individualità e della libertà
politica e religiosa non è da riferirsi primariamente
all’esigenza di giustizia, ma piuttosto a quella di ordine;
o almeno occorre riconoscere che è l’ordine a
rapportare libertà e giustizia. Non può infatti
darsi libertà maggiore di quella di obbedire ad una
autorità sovrana capace di garantire, alla stessa
libertà, un’elevazione di livello ordinata e
pertanto giusta. Un processo, quello di assicurare il
“divenire” della libertà entro un ambito di
legittimità, che si lega al problema del limite,
dellamisura, e dell’adeguatezza che
debbono, di volta in volta, esser posti alla libertà
medesima. La vera libertà si esprimerà allora, in
prima istanza, come obbedienza, nel senso che
l’obbedienza alle norme imposte dal potere sovrano
servirà da scudo ai singoli individui (nei loro
atteggiamenti e nella loro condotta pratica) contro ogni
tentazione dettata dagli egoismi e dagli arbitrii personali, e
dunque dagli impulsi “anarchici” privi di ogni
controllo razionale. Si tratta dunque, per Grozio, di garantire
che gli individui possano operare in piena sintonia, e senza
discontinuità alcuna, con le deliberazioni
dall’Autorità Sovrana. Proprio per questo
lo stesso Grozio si preoccupa di far rilevare che “se in
uno Stato […] viene contemporaneamente da
un’autorità l’ordine di recarsi a Palazzo, da
un’altra di prepararsi per la guerra e infine da
un’altra ancora di recarsi in chiesa, questo sarebbe tenuto
in effetti ad obbedire a tutte, il che è tuttavia
‘impossibile’. Perciò da Tacito è stato
giustamente detto che ‘quando tutti comandano, nessuno
obbedisce’. […] Da ciò anche le celebri
massime comuni: ‘E’ un male che molti
comandino’”.
In tal modo
individualità e Potenza Sovrana si riflettono l’un
l’altra come in uno specchio, corrispondendosi entro una
rete di connessioni di dipendenza reciproca, ossia in
virtù di una trama formale internamente saldata dai
vincoli giuridici di comando e di obbedienza. E sarà,
ancora una volta, da rilevare che l’incontro,
l’”istituzione unanime” di questa
diversità (individuo e Stato, comando e obbedienza,
singolarità e potenza Sovrana, etc.), non confonde i loro
piani, che comunicano senza intersecarsi (e quindi senza
confliggere), mantenendosi i due elementi sotto il mero profilo
funzionale (ma non per questo meno rigorosamente) l’uno ai
confini dell’altro. E’ il contesto organico di
corrispondenze armonicamente istituite
dall’auctoritas a fondare e a garantire,
trasportando e trasvalutando la diversità in
un’unità sostanziale, la possibilità di
ambiti di vita comuni.
Anche se la
distinzione di “pubblico “ e “privato”
viene in tal modo a risultare una istituzione necessaria e
naturale all’interno della sovranità statuale, essa
non rappresenta tuttavia il principio della sua
costituzione: sovranità dello Stato e
libertà individuale non devono infatti essere di principio
separate e neanche –a parlarne in senso proprio -,
conciliate. In effetti la contraddizione nascerebbe proprio dal
volerle contrapporre.
Nel seno di
questo ordito complesso che raccorda le parti in questione (un
tema di vitale importanza per il modello politico groziano e sul
quale l’intellettuale olandese non cessa mai di ritornare
-con argomentazioni che, a dire il vero, non appaiono sempre
lucide ed inoppugnabili, e non senza talune contraddizioni-) il
tratto caratteristico della comunanza, non è tanto dato
dal vivere nello stesso tempo e nello stesso luogo. In
realtà è l’auctoritas a segnare la
logica dell’intero rapporto d’insieme; a stabilire il
luogo di tenuta di tutte le alterità , unificando
le diversità costitutive delle varie membra
nell’unità organica del corpo
sovrano”,
L’Autorità Sovrana viene ad istituire un rapporto di
funzionalità che è condizione costitutiva di un
ordinamento organico: non solo e non tanto monarchico, ma anche
aristocratico etc., secondo le tradizionali forme di governo.
Quello che conta, al di là dell'unicità della
figura del sovrano, è la permanenza della sua
auctoritas, capace di organizzare e di unificare
istituzionalmente, il funzionamento del corpo sociale, e
ciò conformemente ad una misura di
“intelligentia”, di “pietas” e di
“iustitia”. A questo proposito Grozio cita una
massima di Arnolfo, vescovo di Lisieux, secondo il quale
“la giustizia della maestà regia, fortificata dal
discernimento della conoscenza, dirige e ammaestra alla
virtù e alla salvezza”. Al sovrano, precisa Grozio,
si impone l’obbligo di “osservare – cosa
difficilissima, la regola di una saggezza moderata. Esiste
infatti anche una sorta di intemperanza del sapere.’Chi sa
cose utili, e non chi sa molte cose, è sapiente’. Si
tratta del monito che l’Apostolo rivolge a tutti, ‘di
essere sapienti con sobrietà’ (Rom., XII,
3), che l’Autorità Sovrana deve ritenere diretto
soprattutto a se stessa”. Questa misura etica
funge da valido discrimine nell’ambito dell’opera di
governo del sovrano, il quale, grazie a tale “misura”
può regolare e reggere la vita dello Stato conformemente
ad un principio di rettitudine certo ed inoppugnabile,
deliberando nell’interesse della vera fede e in piena
sintonia con il diritto divino. In tal senso la
funzione della giurisdizione sovrana, in quanto consonante con
l’universale natura divina, è anche, in primo luogo,
“ermeneutica”, in quanto ad essa si attribuisce il
compito ricostruire e interpretare la volontà del Padre
celeste codificata e oggettivata nelle vicissitudini terrene.
Compito che, in definitiva, è quello di riscoprirne i
percorsi insiti negli jura rerum e di ritradurli
storicamente, entro la trama di un divenire ordinato, che
circoscrive ogni storicismo possibile solo come
possibilità di naturalismo, ossia come conformità e
adeguatezza alla legge naturale e divina.
Lex,
imperium, auctoritas, in tanto dunque valgono in quanto sono
riconoscibili come tali e non in virtù di una convenzione
o di una decisione di un gruppo di individui che sanzioni la loro
validità, tali cioè da imprimersi
dall’alto e dall’esterno della comunità: in
altri termini, solo in quanto espressioni positive,
radicate, garantite, fondate nella propria inerenza ad una
ratio interna alle cose e ad essa
definitivamente vincolate. Esse si legittimano dunque in
quanto realmente fondano un sistema in cui tracciano passaggi,
connessioni, viae ad pacem, secondo una
“parola d’ordine” sovrana, in cui si esprime e
prende forma il nuovo punto di unità raggiunto. E’
così che storicismo e naturalismo si pongono quasi
parallelamente, come le due facce di una stessa Lex che
connette in un’identica gradualità onto-teologica,
hierarchia, mondo superiore e mondo inferiore.
L’alternativa non è più allora fra
auctoritas e veritas, ma
l’autorità è verità, perché
questa comprende, rafforza e sostiene, nella compattezza di una
stabile forma unitaria, il reale movimento delle res,
inverando entro una salda compagine di rapporti e di connessioni,
la loro stessa essentia, vis, virtus.
Parlare di sovranità è
dunque, sotto il profilo giuridico, (e per Grozio anche, a
stretto rigor di termini, sotto quello “storico”)
possibile, solo in quanto si tratta di sovranità
eticamente giustificabile: la sua auctoritas deve
cioè poter autoregolarsi e la sua azione deve poter
conseguire i fini che si propone seguendo criteri di
comportamento giuridico. Per concludere: il giudizio intorno ai
mezzi e ai fini che si propone la sovranità ed ai mezzi
che utilizza per conseguirli può essere espresso solo
valutandone la loro sostanziale inerenza (o meno) al piano
provvidenziale divino contenuto negli iura rerum (che il
diritto naturale appunto riflette). In questa prospettiva
organicistica il diritto di imperium proprio
dell’autorità sovrana “funziona”, ossia
adempie alla funzione in vista della quale è stato
istituito, solo se “vale”. E il suo
valore deve essere commisurato al grado di aderenza ad un
fondamento e ad una norma assoluta e generale. In tal senso non
può esprimersi che nel diritto. Il quale, appunto nella
sua forma più alta di equità e giustizia universale
(e dunque di composizione e ri-composizione etica), si erge
mediatore tra teologia e politica: l’eternità della
norma divina colma e media il vuoto della scissione, rimedia
all’abisso del peccato, ricostituisce e reintegra la
corrispondenza e continuità del tempo,
giusnaturalisticamente, dalla “città celeste”,
alla “città
terrestre”.
Note