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Ultimo aggiornamento 26 settembre 2003
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Kant e la rivoluzioneIl rapporto del filosofo con il maggiore evento storico del suo tempo, la Rivoluzione francese, è stato per moltissimi anni al centro degli interessi di quanti intraprendevano lo studio della filosofia politica kantiana, e oggi possiamo dire che per molti versi lo è stato a ragione. Infatti, la questione del rapporto tra il repubblicanesimo di Kant e la legittimità della rivoluzione è un tema che si presenta fin dall'origine come estremamente problematico negli stessi testi kantiani. Questa discussione va oltre una semplice indagine storica in merito all'atteggiamento politico di Kant, cioè non si limita alla domanda se egli fosse più o meno legittimsta, più o meno conservatore, ovvero un liberale nell'animo, o addirittura un segreto fautore del giacobinismo della Francia rivoluzionaria (cfr. D. Losurdo, 1984). Lo studio delle idee politiche del filosofo è stata al centro di un dibattito che in alcune sue propagazioni non si è ancora esaurito, e la cui origine deve essere ricercata soprattutto nella recezione della filosofia kantiana nell'ambito del marxismo, dal quale derivò il noto paradigma interpretativo, inaugurato dallo stesso Marx, volto a rintracciare elementi progressisti e democratici all'interno della storia del "pensiero borghese". D'altra parte, oltre che nella polemica di Marx con la filosofia del suo tempo, un tale modo di sezionare la storia della filosofia politica prese le mosse anche dal noto articolo di Engels del 1888 su "Feuerbach e la fine della filosofia classica tedesca" (MEW, XXI, pp. 259-307), nel quale il compagno e collaboratore di Marx poneva proprio in questi termini la questione su come dovesse essere studiata la tradizione filosofica del proprio paese (anche di quella recente). In questo senso, i successori di Marx e di Engels videro nel complessivo favore di Kant per l'evento rivoluzionario un segno proprio di un fondamentale progressismo nella teoria, anche se non confortato dalla pratica politica. In aggiunta, i luoghi di netto rifiuto del filosofo nei confronti dell'ipotesi della rivoluzione (in massima parte quelli della Dottrina del diritto nella Metafisica dei costumi) furono ascritti da costoro alla paura ricorrente negli autori dell'epoca di cadere nelle maglie della censura. In ogni caso, il dato oggettivo che emerge dallo studio dei luoghi kantiani sulla rivoluzione è una oscillazione, che con qualche lieve variazione nei toni resta costante nell'arco degli anni a cavallo tra il 1789 e il 1798, tra una simpatia per i princìpi morali di cui si erano fatti portatori i rivoluzionari, che prescrivevano la costituzione repubblicana, e un categorico rifiuto di recepire il concetto di rivoluzione all'interno della teoria del diritto. Contro la legittimità della rivoluzione, cioè contro un diritto di resistenza nei confronti del sovrano, Kant appare sempre risoluto. Un esempio di questo rifiuto si manifesta chiaramente nella polemica con Hobbes dello scritto sul Detto comune (Ak. VIII, pp. 299-300): in questa sede, Kant nega la possibilità di ammettere il diritto di resistenza proprio sulla base di una argomento logico-formale, sostenendo la contraddizione di quel presunto 'diritto' nei confronti dello stesso concetto del diritto, in quanto regola universale. Un altro luogo dove si nega la possibilità di resistere al sovrano, e di conseguenza si nega la legittimità della rivoluzione sono i §§ 52-53 della Rechtslehre. Si tratta di un'argomentazione, quest'ultima, che Kant riprende alla fine del § 61 della medesima opera del 1797, dedicato al diritto cosmopolitico, nel quale la pretesa di dare un fondamento al diritto di colonizzazione in assenza di un titolo giuridico idoneo (cioè, un contratto con i popoli stanziali che occupano un territorio), è paragonato alla pretesa dei rivoluzionari di poter sovvertire un regime politico. Eppure l'opinione di coloro che vedevano in Kant un fautore delle idee che avevano trovato espressione nel movimento rivoluzionario non era stata del tutto fuori luogo. Soprattutto c'è un dato incontestabile: la filosofia politica kantiana, in quanto propone la realizzazione di una forma di governo repubblicana (come un regime rappresentativo che conservi la divisione dei poteri), non poteva non porsi in opposizione alla monarchia assoluta di Luigi XVI. Questa risoluzione di Kant per la repubblica è chiara già già in tempi non sospetti, allorché nella Prima Critica (ma anche in alcuni scritti anteriori) aveva indicato nel regime repubblicano la forma di governo più vicina "alla sublime idea della ragione" (KrV, Dialektik). Se è vero che quella repubblica così apprezzata da Kant non è certamente un governo democratico-rivoluzionario, è altrettanto vero che il regime istituito dai rivoluzionari si ispirava a princìpi del diritto non troppo lontani dalle aspirazioni "politiche" di Kant. Questo fatto è testimoniato da altri luoghi, presenti sia nell'articolo del 1793 Sopra il detto comune, sia nello scritto sulla Pace perpetua, sia nella stessa Metafisica dei costumi (Ak. VIII,, p. 306, p. 382; RL, Allg. Anm., § 52). Un argomento a sé costituisce poi il celebre riferimento a quell' "evento del nostro tempo per il quale è lecito sperare nel progresso del genere umano", a cui fa riferimento il Conflitto delle facoltà (1798). Nella descrizione del filosofo, l'entusiasmo degli spettatori per le idee dei rivoluzionari dovrebbe testimoniare il fatto che l'umanità si sarebbe incamminata sulla strada del miglioramento morale, anche se rimane oscuro se la moralità di cui parla questo saggio faccia riferimento anche all'etica, e se di conseguenza un tale progrfesso coinvolga anche la virtù, oltre che le forme giuridiche. In ogni caso, fu soprattutto da quest'ultimo scritto che iniziò la fama di un Kant "filorivoluzionario"; ma il fatto che già nell'intera opera fossero presenti numerosi elementi che muovevano in questa direzione lo avevano compreso molto bene già i recensori di quegli scritti politici. La fiducia nel repubblicanesimo da parte del padre del criticismo, e la sua empatia con le nuove istanze democratiche che provenivano dalla Francia rivoluzionaria furono immediatamente comprese dai giovani kantiani di idee politiche più progressiste, i quali spinsero la filosofia del diritto costruita sulla base del metodo critico fino a recepire al proprio interno, questa volta pienamente e senza le forti riserve del maestro, la prospettiva politica di cui si era fatto portatore il giacobinismo. Fu in tal modo che Fichte finì col costruire la propria Dottrina del diritto naturale facendo leva sull'idea kantiana della relazione biunivoca tra diritto e coazione, una visione che segue i motivi di fondo che avevano ispirato le sue idee politiche nei primi Scritti sulla rivoluzione. Il risultato fu una teoria dello stato-chiuso, che tuttavia vedeva realizzata al proprio interno la rappresentanza democratica e l'abolizione delle differenze di ceto. Il favore del diritto di resistenza (e addirittura di un diritto all'insurrezione) si mosse invece Johann Adam Bergk, che nell'opera Untersuchungen (1796) difese la possibilità teorica del diritto alla rivoluzione da parte del popolo contro il sovrano. Facendo leva sugli elementi del kantismo giuridico più legati alla dottrina morale, e negando invece le pur essenziali formulazioni di Kant circa la "incoerenza" logica di un diritto particolare alla resistenza contro l'idea del diritto in generale, Bergk giunge a difendere la posizione dei rivoluzionari giacobini, e di conseguenza quella stessa democrazia diretta e potenzialmente plebiscitaria, che più volte Kant aveva stigmatizzato come una Unform, un regime privo di forma. Gli studi su questi temi politici della filosofia pratica kantiana ha condotto oramai a una chiarezza quasi completa, tanto delle questioni filologiche che hanno motivato questa lunga discussione, quanto delle intenzioni del filosofo. Il primato che egli concesse all'idea della libertà, considerata in tutte le sue multiformi manifestazioni, lo spingeva verso due direzioni antitetiche: da un lato in direzione di un aumento del grado della libertà degli uomini (l'unico diritto innato), con una progressione che investe anche la libertà politica attraverso l'estensione della rappresentanza concessa a tutti come "colegislatori"; dall'altro in direzione della difesa di quella stessa libertà (pursempre giuridica) attraverso la figura dell'indipendenza e della libertà negativa. Si trattava di garantirne la tutela da tutti i tentativi di soppressione che potevano provenire da una nuova forma di dispotismo (come fu sempre per lui la democrazia diretta propugnata dai giacobini). In conclusione, la filosofia politica di Kant rappresenta un esempio davvero ante-litteram di quanto la filosofia e la teoria politica del nostro tempo ha chiamato democrazia-liberale. Il repubblicanesimo kantiano è perciò fautore di uno stato di diritto che, come aveva scritto Cassirer nel 1945, rappresenta un antidoto da ogni insorgenza del dispotismo e del mito nell'ambito della vita politica, la cui validità come formula politica la storia ha insegnato a tutti soltanto molto tempo dopo. I. Kant, Über den Gemeinspruch: das mag in der Theorie richtig sein, taugt aber nicht für die Praxis (Sopra il detto comune: questo è giusto in teoria, ma non vale per la pratica), in Gesammelte Schriften, Akademieausgabe, Bd. VIII, Berlin-Leipzig, W. de Gruyter, 1912. I. Kant, Der Streit der Fakultäten. Zweiter Abschnitt: Ob das menschliche Geschlecht im beständigen Fortschreiten zum Besseren sei ? (Il conflitto delle facoltà. Seconda sezione: Se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio), Königsberg, Nicolovius, 1798, in Ak., Bd. 7, Berlin-Leipzig, W. de Gruyter, 1912. I. Kant, Metaphysiche Anfangsgründe der Rechtslehre (Primi princìpi metafisici della dottrina del diritto), Erster Teil der Metaphysik der Sitten (Metafisica dei costumi), in Ak., Bd. 6, Berlin-Leipzig, W. de Gruyter, 1907-14. J. G. Fichte, Grundlage des Naturrechts (1796), in GA, I.1, Stuttgart-Bad Cannstatt, Frommann-Holzboog, 1970. J. A. Bergk, Untersuchungen aus dem Natur- Staats- und Völkerrechte mit einer Kritik der neuesten Konstitution der französischen Republik, s.l. 1796. F. Engels, Feuerbach und der Ausgang der klassischen deutschen Philosophie, "Neuen Zeit", Apr./Mai 1888, Sonderabdück: Stuttgart 1888, in MEW, Bd. 21, Berlin, Dietz, 1962 e ss.; ora in MEGA, hrsg. v. Internationalen Marx-Engels-Stiftung, Bd. I.31, bearbeitet von Renate Merkel-Melis, Berlin, Akademie, 2002. D. Losurdo, Autocensura e compromesso nel pensiero politico di Kant, Napoli, Bibliopolis, 1984. Recente letteraturaBielefeldt, Heiner, Philosophie der Menschenrechte. Grundlagen eines weltweiten Freiheitsethos, Darmstadt 1998.Fiorillo, Vanda, La rivoluzione politica come dovere morale nel giacobinismo kantiano di Johann Adam Bergk, in "Teoria politica", 16 (2000), n. 3, pp. 115-140 (una versione in lingua tedesca è apparsa anche su "Der Staat", 41 (2002), n. 1, pp. 100 ss.). Id., Autolimitazione razionale e desiderio. Il dovere nei progetti di riorganizzazione politica dell'illuminismo tedesco, Torino, Giappichelli, 2000. Landwehr, Götz (hrsg. v.), Freiheit, Gleichheit, Selbständigkeit. Zur Aktualität der Rechtsphilosophie Kants für die Gerechtigkeit in der modernen Gesellschaft, Göttingen 1999.
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